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Antony McCall: BREATH

Quando nasciamo siamo ancora fortemente connessi nel nostro nucleo ad una grande sapienza e potenza spirituale. Questa connessione, e la sicurezza di essere nella nostra sostanza originaria, ci danno pace, gioia e meraviglia. Poi i legami s’indeboliscono, la psiche cercherà tutta la vita con sostituiti d’ogni genere di rimpiazzare quel paradiso perduto attraverso un io funzionale a ciò che la realtà materiale c’ impone. Il nucleo, però, rimane lì, vivo ed intatto, come un centro di forza solido e sicuro, una libera energia creativa che non ama essere ingabbiata. Il processo creativo riproduce, ogni volta che si manifesta, questo ritorno alla felicità originaria da non confondere con il concetto di regressione, ma piuttosto è da intendere come una misteriosa forza evolutiva che ci riporta al cuore del nostro essere.

Antony McCall, Breath, 2004
Anthony McCall, Breath II, 2004

L’artista ha un accesso “privilegiato” a questa dimensione che, in realtà, appartiene a tutti gli esseri umani.  Il risultato, il prodotto di questo processo, è “donato “ al pubblico, agli esseri umani che sentiranno vibrazioni e frequenze del ritmo, del suono, del colore e dello spazio ed entreranno in contatto con il campo energetico che l’ha prodotto. L’artista ha dunque una responsabilità etica ben precisa che non può essere dimenticata in quanto ciò che produce e crea entrerà a far parte del mondo, diverrà nuovo paesaggio, mentale e sensoriale, nel teatro del vivente. E il nostro mondo ha bisogno, ora più che mai, di libertà, di bellezza, d’armonia, di spiritualità.

Tali riflessioni sono nate pensando all’affascinante ricerca di Anthony McCall artista inglese, (nato nel 1946, da tempo vive a New York ) di cui ho avuto modo di vedere, e vedere in realtà non è la parola esatta, diciamo di sentire, di fare esperienza della sua opera, all’hangar Bicocca, uno dei pochi spazi al mondo in grado di accogliere il suo lavoro.

Breath, respiro, è il titolo della straordinaria installazione di McCall, ed è un inno alla vita e alla dimensione misteriosa dell’immateriale. Sono vere e proprie sculture di luce, proiezioni che, come strutture continue, formano sul pavimento dell’immenso hangar ellittiche forme luminose, la cui progressione algebrica sviluppa complesse forme astratte simili ad onde fluttuanti.

La luce del proiettore di 16 mm proviene dall’alto e crea coni di luce. Lo spazio  sembra solido e reale, ma in realtà non lo è, l’artista per ottenere tale risultato ha usato macchine per foschia artificiale, un video proiettore e un computer posti in alto su ciascuna installazione.

Lo spazio della Bicocca totalmente buio, ospita sei coni di luce.  Il tempo necessario perchè la retina si abitui al buio totale e poi la cosa da fare è quella di lasciarsi andare al percorso creato dall’artista, entrarci dentro. Il raggio produce una membrana architettonica, un luogo chiuso ed aperto. Il fruitore diviene soggetto principale dell’opera: entra ed esce dai volumi, immaginando di poter sfidare i limiti spaziali, quei confini che nello stesso tempo sono concepiti come barriera e via d’accesso. Ci si tuffa in questi luoghi uterini, eterei, per poter attraversare, liberi da ostacoli terreni  il muro luminoso.  E’ il magico movimento del raggio di luce che proietta sullo schermo cinematografico le immagini ad essere protagonista.

E’ la metafora del cinema, quella della vita come sogno e come risveglio: se guardi le immagini sullo schermo, sogni. Se osservi invece il raggio che proietta, sei al di qua del sogno e dell’illusione, hai la consapevolezza di ciò che muove le cose, le persone nel tempo:  tutto è e proviene dalla luce.

Anthony McCall, Breath II, 2004
Anthony McCall, Breath II, 2004

Sensuale ed organica l’opera di McCall dimostra come nell’arco del tempo sia “sempre andato alla ricerca del film ‘definitivo’ quello che non doveva essere altro che se stesso”, delineando un approccio estetico razionale ed emozionale, nel gioco  paradossale della luce solida.

 Nella cognizione che proveniamo dall’invisibile e li torniamo, una volta che il nostro viaggio sulla terra si è concluso, è arte suprema quella che ci fa sentire le nostre vere origini, ci riconnette con la creazione e con il nostro nucleo originario, cosi la nostra percezione va al di là del conosciuto e si abbevera alla nostra vera fonte.  I Vertical Works di McCall sono luoghi gotici, sviluppati soprattutto in altezza, come colonne svettanti non sorreggono, ma contengono il nostro spirito (dal latino spiritus, alito d’aria da spirare) e il nostro desiderio d’assoluto. La messa in scena è essenziale e non regala niente all’artificio.

Anthony McCall non produce oggetti chiusi, finiti, ma crea piuttosto una condizione in cui lo spettatore è chiamato a interagire con il proprio corpo e sentirsi proiettato per un istante in una dimensione ultraterrena. Così ci si immagina di oltrepassare la soglia della luce solida, di entrare in un universo sconosciuto, sconfiggendo le barriere del tempo e dello spazio. Verrebbe da pensare a Star Trek, alla fantascienza, ma le opere e il pensiero di McCall si tengono ben lontani dal sensazionalismo, dall’effetto ottico fine a se stesso. Piuttosto l’artista ci accompagna poco per volta al risveglio sensoriale attraverso l’esperienza del divino che va al di là dei dogmi e dei credi religiosi e che  abita naturalmente ciascuno di noi come sacralità naturale.

Breath, respiro: perché l’aria è il simbolo dello spirituale, ritmo vitale interno, ritmo binario, inspirazione e espirazione, soffio leggero ed invisibile, movimento centripeto e centrifugo a partire dal centro che è nel corpo umano, il cuore. Così entriamo ed usciamo dallo spazio creato dalla luce, seguiamo il flusso vitale d’espansione e contrazione del respiro che regola l’universo, ci immergiamo nel corpo dell’opera. L’identità del luogo si trasforma per poter trasformare la nostra esperienza. La luce, la proiezione, ma c’è anche il sonoro: il proiettore produce un suono impercettibile che fa da sottofondo all’installazione multisensoriale. Ed è come ascoltare il ritmo del sangue che pulsa nelle vene, come ascoltare il proprio respiro. La luce è solida, è un corpo vibrante, la relazione con lo spazio apre nuove prospettive allo sguardo, coinvolge tutto il nostro essere. Per ricordarci che proveniamo dall’immateriale e ad esso siamo destinati.

 

Stefania Carrozzini

D’ARS year 49/nr 199/autumn 2009

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