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Bioarte: così lontana, così vicina

La fine del ventesimo secolo è stata caratterizzata da un elevato interesse mediatico per la biologia molecolare. Il completamento dell’intera sequenza del genoma umano, l’individuazione della funzione di diversi geni, lo sviluppo di coltivazioni transgeniche e la clonazione di animali sono stati gli eventi che hanno segnato i primi dibattiti sulle implicazioni delle nuove biotecnologie. La genetica ha smesso di essere di dominio esclusivo della ricerca scientifica, ed è diventato oggetto di dibattito filosofico e politico. In questa atmosfera il sistema dell’arte ha sentito la necessità di invadere i laboratori cercando di legare la sperimentazione scientifica all’esperienza artistica (vedi Art biotech, D’ARS n.191, 2007).

Il primo a rendersi conto delle straordinarie potenzialità insite nella molecola di DNA, prima dell’avvio del Progetto Genoma Umano, è stato l’artista americano Joe Davis (USA, 1953). In tutte le sue opere è significativo il valore simbolico dato al codice genetico trattato come una catena di informazioni. Non a caso parla di “codice”. La sua prima opera basata sulla sintesi di DNA è stata Microvenus del 1986.

Le colture di Escherichia Coli usate nell’opera Microvenus (1986) di Joe Davis
Le colture di Escherichia Coli usate nell’opera Microvenus (1986) di Joe Davis

Nei venti anni successivi sono stati molti altri gli artisti che hanno avuto uno stretto legame con la produzione scientifica. La maggior parte di queste opere, esposte nel corso degli anni per lo più durante il festival Ars Electronica di Linz in Austria (qui abbiamo parlato dell’edizione in cui Davis ha vinto il Golden Nica nel 2012), è stata raccolta per la prima volta in un unico evento dal critico tedesco Jens Hauser. L’Art Biotech è il titolo della mostra che si è tenuta nel 2003 a Nantes in Francia presso Le Lieu Unique.

Il termine art biotech (arte biotech o anche bioarte) definisce un’arte che non ha niente a che vedere con quello che Dmitry Bulatov chiama genomic kitsch, cioè foto, video e animazioni digitali relative alla cultura genetica. Gli artisti biotech fanno uso diretto di materiale biologico, sintetizzano geni, producono esseri viventi transgenici, coltivano tessuti. “Il Dna è diventato medium artistico” è quanto afferma Hauser che utilizza la parola dètournement come chiave di interpretazione.

Joe Davis, Bacterial Radio Ars Electronica
Joe Davis, Bacterial Radio, Ars Electronica, 2012

Gli artisti biotech collaborano strettamente con ricercatori e scienziati. Nelle opere prodotte il medium utilizzato coincide con il soggetto delle loro speculazioni teoriche. Jens Hauser curatore della mostra L’Art Biotech (Le Lieu Unique, Nantes, Francia, 2003) afferma: “Lo scopo dell’arte biotech è sollevare il velo su quanto accade all’interno dei laboratori di genetica per interrogarsi sulle tecnologie e imparare a utilizzarle”.

Gli approcci alla materia sono eterogenei. Non si cerca solamente di descrivere criticamente i progressi della biotecnologia, ma anche di introdurre il materiale biologico come nuovo strumento dell’arte. Questo è quanto afferma Marta de Menezes (Lisbona, Portogallo,1975). Nell’opera Nature? (Ars Electronica 2000, Linz, Austria) l’artista portoghese esplora le possibilità dei sistemi biologici mettendo in evidenza i limiti della contrapposizione tra cioè che è definito naturale e ciò che è culturale. L’autrice stessa afferma: “In Nature? ho esplorato non solo il confine tra arte e scienza ma anche tra naturale ed artificiale”.

“Nature” Marta de Menezes, 2000
“Nature” Marta de Menezes, 2000

 

Allo stesso tempo queste opere offrono uno spunto di riflessione sull’influenza delle preferenze estetiche sull’evoluzione. Evocando la minaccia di un’eugenetica che risponda ai dettami del gusto comune e alle esigenze dei mercati, si fa leva sulle diffuse paure legate allo sviluppo della manipolazione genetica. Il mito ancestrale del controllo della vita ritorna evidente nei lavori del collettivo australiano SymbioticA. Le loro opere sono state spesso definite wet art, arte umida, perché intervengono direttamente su materiale organico. Per le loro sculture semi-viventi utilizzano principalmente tessuti creati in laboratorio formati da aggregazioni di cellule.

Symbiotica-Victimless Leather-2004
Symbiotica-Victimless Leather-2004

Lo sviluppo tecnologico è la condizione iniziale che ha permesso la nascita di una nuova arte, che fa uso di materiali nuovi perché inediti e inusuali, ma paradossalmente, come fa notare Joe Davis, più vecchi della terra. Una società biotecnologica basata sul culto del possibile trasmette valori di biodeterminismo e analizza l’uomo sulla base delle piccole parti che lo compongono.

L’arte biotech pone lo spettatore a diretto contatto con le ansie e le paure generate dalla coltivazione di piante transgeniche, dalla ipotesi di trapianti di organi su misura, fino alla brevettabilità della vita ed ai fantasmi dell’eugenetica. Lo fa utilizzando gli stessi strumenti della scienza, producendo oggetti reali che sono l’incarnazione di quelle inquietudini. Secondo Bulatov: “la realtà della rappresentazione (mondo della creazione artistica) è sostituita dalla presentazione della realtà (creazione di un mondo), così da ridurre al minimo la differenza tra un modello originario artificiale e il mondo attuale”.

Inevitabilmente l’icona dell’intera mostra curata da Hauser diventa il coniglio transgenico Alba, definito il Che Guevara della bioarte, in riferimento al grande peso mediatico che questo animale ha assunto nel corso degli anni.

"GFP Bunny" , Alba, coniglio fluorescente, 2000. Photo: Chrystelle Fontaine
“GFP Bunny”, Alba, coniglio fluorescente, 2000. Photo: Chrystelle Fontaine

Ideato nell’ambito del progetto artistico GFP Bunny di Eduardo Kac (l’articolo di Kac, Bio Art uscito su D’ARS n.197) e nato nell’Aprile del 2000 a Jouy-en-Josas in Francia, Alba è un coniglio fluorescente frutto di una tecnica largamente diffusa nei laboratori che fa uso di una proteina della medusa Aequorea victoria, causa della sua luminescenza, come marcatore genetico. La fluorescenza del coniglio è visibile solo se l’animale è illuminato da una particolare luce blu e se l’osservatore utilizza particolari filtri gialli. Sebbene mai nessuno spettatore abbia effettivamente visto la sua luminosità, l’animale fu subito censurato e contestato.

Tuttavia attraverso le immagini che lo ritraggono fluorescente e la documentazione del progetto, Alba riesce a sollevare dibattiti sullo statuto degli animali transgenici e sul limite dell’intervento umano nella natura. Un tipo di intervento artistico simile a quello dei Critical Art Ensemble (CAE) che negli anni dal 1997 al 2007 hanno dato vita a numerosi progetti al fine di “creare interventi molecolari e shock semiotici che contribuiscano alla negazione della montante cultura autoritaria”.

Critical Art Ensemble, Molecular Invasion (2002)
Critical Art Ensemble, Molecular Invasion (2002)

Altra importante tappa artistico-filosofica è stata Sk-interfaces, curata anch’essa da Jens Hauser, una mostra che ha messo in luce come “le biotecnologie spostano in avanti le soglie del corpo in una dimensione, come quella del biologico, dell’organico, più generale e aperta a commistioni anche col non organico. Il corpo diventa allora il fulcro di interventi che divengono sempre meno “esterni”, invasivi, aggiunti, ma ne costituiscono una sorta di naturale prolungamento” (Pier Luigi Capucci, Oltre le soglie del corpo, D’ARS n. 198, 2009).

La diffusione di informazioni su circuiti alternativi a quelli ufficiali diventa uno dei compiti degli artisti. Ma non solo: da qualche tempo si affacciano nel panorama delle biotecnologie anche nuove correnti organizzate di pensiero che derivano in parte dal mondo dei maker e che mutuano dalle filosofie hacker e del Do It Yourself l’intento di condividere informazioni e competenze, mettere mano alle tecnologie e capirne il funzionamento. Ne parla ad esempio Alessandro Delfanti nel libro uscito per Eleuthera nel 2013, Biohacker – Scienza aperta e società dell’informazione.

Diversi sono i laboratori che stanno divulgando pratiche di diy-bio portate avanti dalla comunità di biohacker che tanto hanno in comune con i bioartisti (e bioartivisti) che li hanno preceduti. Attraverso l’uso di tecniche rimaste nel chiuso dei laboratori e attraverso la manipolazione di materiali che destano timori, si arriva a mettere in evidenza un controllo totale da parte della scienza su scelte che riguardano la collettività e si mascherano le illusioni create dagli apologetici discorsi ufficiali. La nuova sfida potrebbe giocarsi dunque sul terreno della comunicazione scientifica “dal basso”, un terreno sul quale si riconfigurano i valori sociali, politici ed economici di tutto ciò che assume il suffisso –bio.

Loretta Borrelli, Martina Coletti

 

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