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Giuseppe Penone. Il segreto dell’ordine primo

“La mano che modellò l’uomo ha lasciato su questo le impronte che acqua e aria riempiono nel variare dei nostri movimenti. L’aria infatti che riempie le impronte rifà la pelle dell’artefice; la pelle di chi tocca l’uomo tende ad assumere in quel punto la forma di quella dell’artefice.”

Giuseppe Penone[1]

E’ da tutta una vita che Giuseppe Penone insegue quelle orme. Le ha scovate (e lasciate) tra le pieghe della materia, nei vuoti e nei pieni delle forme, negli equilibri e nei silenzi, ma soprattutto le ha trovate (e impresse) nei millenari respiri della natura, quella natura che ancora oggi lo incanta e lo intimorisce, lo sopraffa e lo incuriosisce. E l’intero suo lavoro (sapientemente ordinato da Gianfranco Maraniello in una bella mostra al MAMbo di Bologna) si fonda proprio sulla ricerca di quell’ordine primo che sta alla base di tutte le cose, ovvero di quella dimensione che non è semplicemente forma, non è spazio, non è vuoto e nemmeno materia, ma tocco e memoria. “Toccando – spiega infatti l’artista – si conoscono i volumi, lo spazio, le forme. Il tatto è uno strumento di verifica della realtà più preciso della vista, perché il vedere si basa su una convenzione. Quando consideri uno spazio, puoi misurarlo con lo sguardo, ma finisci comunque con il verificarlo col corpo”[2]. Il tatto è il primo senso dello scultore: con le mani egli plasma, accarezza, soppesa, doma, misura, cerca, vede, ma soprattutto ricorda. E’ però una memoria che da empirica e individuale si fa visionaria, lirica, intuitiva, universale, originaria, in un processo identico a quello dell’ordine cosmico e che John Dewey chiamava la “ricerca della saggezza”. Tuttavia, se per il pragmatismo deweyano è il pensiero lo strumento che aiuta a risolvere le difficoltà e unisce teoria e prassi, per Penone è l’azione, è quel lavoro di scavo (fisico o intellettuale) che porta al ritrovamento della forma e, con essa, alla fonte prima delle idee. Un processo che ha tutta l’aria di essere tautologico, ripetitivo, seriale e in qualche misura lo è, soprattutto nell’approccio, ma mai nel risultato e men che meno nella storia che ne ricava, che ogni volta è completamente nuova: “Rifaccio un albero di legno non solo con la sua forma, ma con la materia stessa che l’albero ha creato”[3].

Giuseppe Penone, Soffio di foglie, 1979
Giuseppe Penone, Soffio di foglie, 1979

E allora vediamoli questi suoi alberi, forse la serie più conosciuta di tutto il suo lavoro. Penone scava – con un metodo che lui stesso definisce “scortecciamento” – una trave di legno (di quelli che comunemente si usano nella carpenteria) alla ricerca della sagoma primordiale, cioè dell’albero da cui quel parallelepipedo è nato. Un po’ come faceva Michelangelo, che liberava la forma dai blocchi di marmo in cui era imprigionata, allo stesso modo Penone restituisce all’albero la sua fisionomia, il suo DNA, con tanto di rami (seppure mozzi) e di anelli, ma lo fa compiendo un cammino inverso e per di più accelerato (rispetto al naturale processo di crescita della pianta): nella forma squadrata e anonima della trave egli ritrova quella vita e quelle sembianze che si erano perse, ne mette a nudo le rotondità, ne ricostruisce la storia, in un parola rigenera la pianta, non come fossile ma come embrione. “Tecnicamente, per restituirgli la sembianza dell’albero che fu in un preciso momento della sua vita vegetale – spiega Penone -, devo prima stabilire dov’è la punta e dove la base. […] Di lì io incomincio a scavare ed è sufficiente che continui seguendo questo strato più duro per ricuperare la forma dell’albero. A questo punto non solo ottengo una forma, ma ho anche ripercorso tutto il fenomeno di crescita, fino al momento in cui la mano dell’uomo o, chissà, un evento in natura l’hanno arrestato”[4]. E ancora: “La mia immaginazione intendeva produrre una foresta dal legno delle travi, dagli oggetti con cui si costruiscono gli ambienti nei quali viviamo, e trovare la purezza che ha originato questa materia. Nelle travi ho scavato per far riemergere gli alberi”[5].

Nel 1978 Penone realizza una grande installazione per il Kunsthalle di Baden-Baden. Le protagoniste della mostra erano due grandi tele (1000 x 200 cm) sulle quali l’artista aveva riprodotto l’epidermide delle sue palpebre. In pratica erano due grandi occhi chiusi, la cui superficie, irradiata di sottili linee scure, pareva una gigantesca carta geografica, l’orogenesi di un mondo lunare o desertico. Il loro tegumento, attraversato da una luce morbida e carezzevole, aveva la suggestione e il mistero di un’antica pergamena. Come una sindone, quelle due tele erano la rappresentazione del tracciato millimetrico e ossessivo di ogni piccolo punto delle palpebre dell’artista, ma ingigantite a dismisura: “Ho messo una specie di gelatina sulla palpebra – spiega -, l’ho tolta e ho proiettato l’immagine ricavata. Dove la gelatina era più spessa si creava una zona d’ombra, dove era più trasparente una zona di luce. Si produceva una «mappa» della pelle della palpebra, che è il punto di chiusura […] della vista”[6]. [inserire foto 25] Qualcosa di simile Penone lo ripropone con Palpebre (1989-1991): una grande nuvola grigia, costruita con “petali” dalla cute secca e trasparente, radunati in un grappolo che si fa minaccioso e inquietante, foriero com’è di funesti temporali.

Giuseppe Penone, Palpebre, 1989-1991
Giuseppe Penone, Palpebre, 1989-1991

Anche quelle sono tracce, sono impronte lasciate dalla pelle nella luce e nello spazio, sono sguardi rovesciati verso il dentro per poter vedere meglio fuori. Rovesciare i propri occhi (1970) è anche il titolo di uno dei suoi primi lavori: una fotografia ravvicinata del proprio volto, con al posto dell’iride due specchi, due cerchi di luce metallica che riflettono il mondo e volutamente, anche contro il noto adagio popolare, nascondono l’anima, facendo assumere a quel profilo sembianze aliene.

Lorella Giudici

D’ARS year 48/nr 196/winter 2008



[1] G. Penone (1974), in G. Celant, Penone, Electa, Milano 1989, p. 90.

[2] G. Penone, in G. Maraniello, Giuseppe Penone, catalogo mostra, MAMbo, Bologna 2008, p. 6.

[3] Ibidem, p. 5.

[4] G. Penone (1976), in G. Celant, Penone, op. cit., p. 55.

[5] G. Penone, in G. Maraniello, op. cit, p. 4.

[6] G. Penone, in G. Celant, Penone, op. cit., p.  20.

 

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