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Guido Ballo. Il critico e il poeta

“L’arte della civiltà moderna ha solo una funzione: quella lirica. Che è purificatrice”.

Guido Ballo

Negli anni del dopoguerra, prima sulle pagine di “Omnibus” e di “Settimo giorno” e poi su quelle dell’“Avanti!”, del “Corriere della Sera” e spesso anche su quelle dell’amico Oscar Signorini, Guido Ballo recensisce mostre, analizza opere e argomenta sull’arte del proprio tempo e del passato consegnando al pubblico e alla storia pagine appassionate, lucide, ricche di vivaci riflessioni e sempre attente a spiegare il senso e l’origine delle cose.È tra i primi a riconoscere il lavoro di Fontana, Scanavino, Arnaldo e Giò Pomodoro, Baj, Azuma, Tadini, Novelli, Alik Cavaliere, Gianni Colombo, Santomaso, Dorazio, Turcato. E l’elenco potrebbe continuare, coinvolgendo molti dei protagonisti dell’arte italiana degli anni cinquanta e sessanta. Inoltre, restano pietre miliari le sue monografie su Fontana, De Pisis, Boccioni e sono tutt’ora insuperabili i suoi studi sulle origini dell’astrattismo, ma anche sul Futurismo e sul Simbolismo, che vede strettamente legati perché consequenziali, anzi Ballo riconosce il Simbolismo come premessa della cultura artistica di tutte le avanguardie (dall’espressionismo di Munch, all’astrattismo di Kandinsky e Klee, dal futurismo alla metafisica), ma se in Francia il Simbolismo è legato ai decadenti, “in Italia l’influsso simbolista proviene più dalla secessione viennese, con interferenze anche della linea francese per lo sviluppo divisionista”[1]. Studi che sfoceranno in pubblicazioni e mostre di successo, fino alle ultime retrospettive di Boccioni e Munch a Palazzo Reale di Milano (1985-86).

Guido Ballo e Arnaldo Pomodoro, Milano, 1993
Guido Ballo e Arnaldo Pomodoro, Milano, 1993

A quattro mesi dalla sua scomparsa, l’Accademia di Brera gli ha dedicato un’intera giornata (25 novembre 2010), a cura di Dario Trento e mia, durante la quale amici, artisti, ex allievi e studiosi (da Arturo Schwarz a Carlo Bertelli, da Kengiro Azuma a Stefano Agosti, da Piero Quaglino a Emilio Isgrò e ancora Concetto Pozzati, Claudio Cerritelli, Grazia Varisco, Gianni Gallinaro, Pietro Colletta, Mauro Staccioli, Fernando De Filippi, Fausta Squattriti, Anna Zanoli e naturalmente i figli Francesco e Marina) ne hanno ripercorso il lungo e ricco lavoro critico e l’altrettanto intenso lavoro di poeta (e, a questo proposito, occorre ricordare che nel 1960 fonda e dirige con Roberto Sanesi e Luciano Cherchi, la rivista letteraria “Poesia e Critica”; una prima raccolta di poesie, Delitto e annunciazione è stata pubblicata da Schwarz nel 1954 e un secondo volume, con poesie dal 1940 al 1990, è uscito nel 1994 con Scheiwiller, Il muro ha un suono) .

Nato ad Adrano, alle pendici dell’Etna, nel 1914, Ballo si è laureato in filosofia a Palermo e poi si è trasferito a Milano (1939), dove per quarant’anni ha insegnato storia dell’arte (prima al Liceo Artistico e successivamente all’Accademia di Brera) e dove ha cominciato la sua missione di critico a sostegno di un’arte che ha sempre visto indissolubilmente legata alla vita e all’ambiente che l’ha generata, perché figlia dell’uomo, anzi della poesia.

Dopo il volume del 1964, in cui ricostruisce il percorso dell’arte italiana del Novecento, La linea dell’arte italiana dal futurismo alle opere moltiplicate, il libro in cui sintetizza questo suo pensiero è Occhio critico, nei due volumi successivi del 1966 e del 1968. Ma la sua posizione critica si rintraccia anche in tutte le mostre che cura per la Biennale di Venezia: sette edizioni consecutive, dal 1956 al 1968, e poi ancora nel 1988 (con una selezione delle ultime opere di Burri, Accardi, Dorazio e Santomaso), dove ripercorre le vicende del Futurismo e del Simbolismo, ma dove propone anche personali di Fontana, Colombo,Pietro Cascella, Emilio Scanavino, Sergio Dangelo, Lorenzo Pepe, Rodolfo Aricò, Mario De Luigi, Tancredi, solo per citarne alcuni.

E quando non è tra i curatori, le commenta sulle pagine dei giornali, dove non risparmia analisi, annotazioni e interpretazioni e dove non manca di far sapere il suo risentimento nel momento in cui sente che la biennale non sta svolgendo il ruolo che le compete o l’arte si sta pericolosamente allontanando dal suo pubblico.

Come sempre, fermamente convinto dell’impegno etico e del ruolo “didattico” del critico, Ballo scrive affrontando ogni argomento cercandone radici e motivazioni: “L’arte della civiltà moderna ha solo una funzione: quella lirica. Che è purificatrice. Ma il lirismo diventa pieno quando non venga ricercato nel modo più diretto; quando non intenda essere soltanto «puro», ma risolva con pienezza altri fattori non lirici. Basti pensare a quegli artisti più vicini al nostro gusto moderno: agli arcaici, ai cosiddetti Primitivi, ai pittori del primo Rinascimento, solo per fare qualche esempio”[2]. Liricità e primitivismo, due aspetti che ricorrono in tutta la sua lunga attività critica e nelle sue scelte espositive. Vediamo allora di capirli meglio.

Ai suoi occhi l’arte non ha altra ragione che quella poetica. Non è più questione di forma o di materia, di rappresentazione del vero o di racconto fantastico, ma di liricità: un mondo tutto interiore, emotivo, vitale, “una totalità senza confini”[3] che contempla lo stupore e il sogno, il silenzio e l’assoluto e che nasce dalla vita. Ci sono pagine dedicate agli artisti che partono proprio da qui, dal loro carattere, dal loro essere. Pagine memorabili su Boccioni, su Fontana, dove, prima ancora di analizzarne l’opera, Ballo si preoccupa di far sapere com’erano come uomini.

L’altro elemento ricorrente è il primitivismo, da leggersi come richiamo alle origini, come legame indissolubile con le proprie radici e con l’ambiente in cui l’opera nasce e si sviluppa. È da intendere anche come la ricerca degli antecedenti, delle ragioni di partenza di ogni manifestazione artistica. E su questo Ballo insisterà più volte, come condizione sine qua non per comprendere qualsiasi espressione dell’arte, anzi del pensiero[4].

Lorella Giudici

D’ARS year 51/nr 205/spring 2011

 


[1] G. Ballo, XXXI Biennale, Venezia 1962, p. 139.

[2] G. Ballo, Quattromila quadri sono sempre troppi, “Omnibus”, Milano, 2 luglio 1952, p. 26.

[3] Sono parole che Ballo usa quando racconta delle sculture di Arnaldo pomodoro alla XXXII Biennale del 1964 (catalogo p. 72), ma gli esempi potrebbero essere tanti altri.

[4] Un concetto che, per altro, ritrovava nei testi di Lionello Venturi (che nel 1926 aveva già scritto Il gusto dei primitivi), per il quale nutriva profonda ammirazione e che probabilmente ha influito non poco sulla sua formazione.

 

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