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Hamletmachine secondo Robert Wilson

Hamletmachine di Heiner Müller al Teatro Astra di Vicenza: il cartellone Conversazioni – 70° Ciclo di Spettacoli Classici ha ospitato il lavoro del drammaturgo tedesco diretto da Robert Wilson

Hamletmachine, regia di Robert Wilson, foto di Lucie Jansch, in scena attori studenti dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico
Hamletmachine, regia di Robert Wilson, foto di Lucie Jansch, in scena attori studenti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico

Capita una sera che in un piccolo teatro di provincia, tra il pubblico ci sia Robert Wilson. E capita pure che il suo ultimo lavoro presentato a Spoleto non sia in scena al vicino e glorioso Teatro Olimpico, bensì nel più modesto Teatro Astra di Vicenza. Così vintage e retro da ricordare certi teatrini parrocchiali. ma alter ego involontario al rigorosissimo canone di Bob Wilson che usa letteralmente due volte questo involucro di cemento.
Prima per la rotazione della scatola scenica, possibile forse solo su un assito di superficie limitata, e poi per riflettere nella pulizia cristallina del palco, il variopinto affastellarsi del rumoroso quanto disordinato pubblico in platea.

Ghigna così l’alter ego di Heiner Müller in proscenio, specchio impietoso del grottesco reale della sala. Perché questa versione, che lo stesso autore ha riconosciuto a Wilson come “la più aderente e fedele alla sua poetica”, è la somma più distillata e trasparente dell’elaborazione teorica sulla marionetta e insieme il suo risultato più disperato.
Hamletmachine è la dispersione dei frammenti allucinati del personaggio shakespeariano; è pure il tracollo dell’utopia comunista evocata dagli spari sullo sfondo, ma è soprattutto un teorema filosofico sull’impossibilità della messa in scena.

Hamletmachine, regia di Robert Wilson, foto di Lucie Jansch, in scena attori studenti dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico
Hamletmachine, regia di Robert Wilson, foto di Lucie Jansch, in scena attori studenti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico

A trent’anni dalla storica “prima” di New York, il regista texano ha coinvolto questa volta gli studenti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e forse in nome della loro freschezza ha lasciato sullo sfondo le pesanti temperie politiche dell’Est Europa che aleggiavano ingombranti sulla versione originale.
“Voglio essere una macchina” aveva detto una volta Andy Warhol. “La bicicletta è una macchina, che ci chiede gesti meccanici ma il suo movimento è libertà” ha detto, emozionato e commosso, Wilson dopo gli applausi finali.

Macchina: come ripetizione del gesto che genera umorismo, macchina come impossibilità di essere intellettuali perché anche il pensiero si svuota nel suo logoro girare a vuoto dentro allucinazioni e fantasmi.
E ancora macchina come concretezza che tende all’astrazione. Sulla scena oggetti reali con le forme di una scultura di Melotti. Un tavolo obliquo, delle sedie, un albero secco come la speranza di Beckett che attende invano Godot. Ma tutto gira dentro un carillon da Balli Plastici e il punto di vista “ruota” di lato in lato. Frustrazione della visione.

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Hamletmachine, regia di Robert Wilson, foto di Lucie Jansch, in scena attori studenti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico

Macchina come ritmo di pieni e vuoti, i silenzi scanditi da una colonna sonora (le percussioni di due legni e la versione a pianoforte di Is that all there is? resa famosa da Peggy Lee) e la parola recitata con dizione formale, algida: suono e silenzio sono tracce parallele. E quando il recitato corale, ossessivo, onomatopeico degli attori perde il sincrono con l’immagine, le bocche si spalancano, i volti ricoperti di cerone come nel teatro di Harold Pinter, diventano serigrafie di Warhol stagliate sul nulla. Eccola l’impossibilità del piacere estetico della rappresentazione. La ripetizione dà solo nausea.

La macchina stritola i personaggi dell’Hamletmachine, carnefici e vittime che siano, diventano un monumentale quadro iconografico, una coreografia della disfatta dal sapore di un collage in cui Gilbert e George vanno a braccetto con certo teatro di Oskar Schlemmer.
Una tempesta di suoni e rumori scandiscono la dilatazione del gesto orchestrato su una sorta di marcia da regime, da parata da Domenica delle salme, danza macabra costretta da una divisa inadeguata a contenere la paura di una tragedia che come una gallina inutilmente “ripete il suo verso”.

Simone Azzoni
Hamletmachine
testi di Heiner Müller
ideazione, regia, scene e luci Robert Wilson
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