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JAN FABRE A ROMA. THE POWER OF THEATRICAL MADNESS

A Roma doppia invasione di Jan Fabre: al MAXXI con la mostra inauguta il 16 ottobre, Jan Fabre. Stigmata. Actions & Performances 1976-2013 e al Romaeuropa Festival che lo coinvolge con due performance al Teatro Eliseo, The power of theatrical madness e This is theatre like it was to be expected and foreseen.

Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness.  Courtesy Fondazione Romaeuropa
Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness. Photo by Wonge Bergmann. Courtesy Fondazione Romaeuropa

Il primo lavoro fornisce i materiali e i sensi d’uso del teatro di Fabre a cui arrivò (lui partito da studi come grafico-vetrinista come Andy Warhol), dopo una fitta trama di azioni/performance, segni, installazioni, film e video. Questa trama di sperimentazioni prepara la sua attività creativa verso un ampliamento operativo dalla performance all’Azione teatrale, verso azioni spaziali, visive e testuali complesse, ma sempre legate alle arti visive contemporanee, allora molto presenti anche nel teatro: Robert Wilson e Hysterical Ontological Theatre, in Europa il teatro immagine, il teatrodanza di Pina Bausch e tanti altri. Si riallaccia con questi autori il passaggio fra performance e teatro di Fabre. La “Scrittura visiva” e la “Scrittura teatrale” in quegli anni hanno avuto straordinarie fioriture.

Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness.  Courtesy Fondazione Romaeuropa
Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness. Photo by Wonge Bergmann. Courtesy Fondazione Romaeuropa

Rivisto a 30 anni di distanza dalla sua prima comparsa The power of theatrical madness di Fabre è una enumerazione (ma anche una critica feroce) dei miti del teatro moderno. O piuttosto dell’ordine neutralizzato in cui vengono ricollocati, da Wagner (ricordiamo Der Ring des Nibelungen e la sua idea di Gesamtkunstwerk, l’opera totale) in poi in cronologico ordine. Tutto è citat,tutte le grandi opere (e i grandi nomi) che hanno fatto il teatro moderno fino al contemporaneo. Citazione che nei Postmoderni anni ‘80 vuol dire spesso ironia e critica sul passato prossimo, ma il lavoro di Fabre è molto più violento e “dark” di quanto avvenisse negli anni ‘80. Sarcasmo e non ironia, violenza “punk” e non gioco astratto come a volte avveniva in quegli anni. La contraddizione del progetto (ed è una contraddizione tipica del suo lavoro) è che per impossessarsi di una forma linguistica la nega-e-se-ne-appropria nello stesso momento. La proiezione di riproduzioni di celebri quadri diventa una serie di simboliche rappresentazioni di temi centrali della cultura occidentale: l’erotismo, l’eroismo, il potere e le strutture del potere (e il sesso come potere). Il “Re è nudo” e sdoppiati e nudi due re si aggirano incoronati, nudi e assenti sul palcoscenico, circondati una serie di cortigiani costretti in abiti/divisa da collegio altoborghese. Ma nell’ossessiva ripetizione da “basso ostinato” di Boogie-Woogie, nell’iterazione carceraria di passi, gesti, movimenti spaziali si attua una drammatizzazione originale, una forma diversa dall’iterazione minimalista che ha accomunato negli anni precedenti teatro, musica, arti visive.

Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness.  Courtesy Fondazione Romaeuropa
Immagini dello spettacolo di Jan Fabre The power of theatrical madness. Photo by Wonge Bergmann. Courtesy Fondazione Romaeuropa

A differenza della ripetizione sacrale e ieratica di Bob Wilson, che colloca gesti e cose in una dimensione metafisica e distante, l’energia nevrotica di Fabre disegna una situazione di tensione costante, minacciosa e inafferrabile che “tiene” malgrado l’estrema, estenuante estensione del tempo teatrale. E diversamente dal celebre Einstein on the Beach diretta da Wilson, la tensione viene travolta da improvvisi sberleffi, sgradevoli intermezzi dove la visione si scarica o si carica nella risata, nel verso sgradevole che sembra uscire dai mendicanti osceni dei quadri fiamminghi. Un teatro della “violenza trattenuta”, un teatro del “ricatto psicologico” che  non ha nulla a che fare con il corrente “teatro da camera” che inflaziona l’Italia.  Una violenta corrente di “trasgressione emotiva” passa fra scena e spettatori e si ha la sensazione  di una crisi imminente e per più di quattro ore continuamente rinviata fino a far saltare i nervi. Si viene infine “liberati” dalla fine dello spettacolo, ma è una liberazione ricca di riflessioni, di emozioni, di pensieri che non ritroviamo nel teatro di oggi. Questo fa pensare che le tracce di una nuova drammaturgia nate in quegli anni sono, semplicemente, non ancora consumate né superate, e dimostra come sia necessario riesaminare il balzo in avanti allora compiuto e ricominciare da tre.

Lorenzo Taiuti

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