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Maravee. La visionarieta’ dell’abitare

Dal salone proviene una musica familiare che un orecchio attento ricollega immediatamente a “Psyco”. Le note sono effettivamente quelle della colonna sonora scelta da Alfred Hitchcock per il suo celebre thriller, ma ciò che si vede proiettato sul grande schermo non ha nulla dei bianchi e neri della pellicola del 1960: scorrono immagini in 3D simili al render di un videogioco interattivo e si impiega qualche secondo per attribuire a tale scenario la paternità filmica che la musica aveva già provveduto a conferire.

Helmut Grill, The Refuge
Helmut Grill, The Refuge

È la prima di una serie di situazioni di déjà-vu su cui gioca l’esposizione Maravee Domus 2010, curata da Sabrina Zannier all’interno del Castello di Susans (Udine) e incentrata quest’anno sul tema dell’abitare. Superata la suggestione paesaggistica del vialone di ingresso, dentro al maniero ci si rende conto che la matrice dell’esposizione è lo stupore. Il termine friulano che da nove anni titola la manifestazione è indicativo di questo aspetto:  maravee condensa la meraviglia con il suo lato misterioso e dunque, nascosto. Stupore, dicevo, perché ogni oggetto non detiene la funzione che gli competerebbe e innesca nel visitatore processi cognitivi che non si sarebbe aspettato. Il filo su cui muove l’esposizione è la percezione del famigliare nel non-famigliare che, ricordando la teoria dell’Unheimliche di Freud*, crea il perturbante. Più di altri ambienti, la domus è il luogo famigliare per antonomasia, è lo spazio del domestico (una tautologia, sì, utile però a collegare la fisica all’estetica): è qui che la manifestazione del diverso e del nascosto amplifica la sensazione di perturbante. Cosa succede se irrompono elementi imprevisti nella stabilità del sistema noto? In questo interviene la curatrice che ha scelto i toni ironici di certe opere (Bertozzi&Casoni o Helmut Grill) ed altri più disturbanti (Odinea Pamici o Karen Knorr) per inserire l’inusuale e far riflettere sulle emozioni che esso induce di fronte al riaffiorare di conoscenze latenti.

Al secondo piano, oggetti normali come la tavola o i piatti sono avvolti dalla carta d’argento (il Domopak, per intenderci) allestendo una scena che domestica proprio non è: l’effetto straniante del grande banchetto impacchettato da Odinea Pamici è moltiplicato dalle foto della serie “A lunga conservazione” e il suo “Mr. Muscolo Idraulico” chiude con raccapricciante maestria il ciclo. Sopra un elegante talamo nuziale dal drappeggio argentato – in chiaro pendant con la pellicola di alluminio della serie fotografica – un intestino è dolcemente adagiato, nel riposo eterno che gli si addice data la sottrazione dal corpo che lo aveva protetto; inconsueta è la disposizione dell’organo indispensabile alla rimozione del nutrimento, insolita è l’attenzione che gli viene data con le vesti argentee e la grandeur del mobilio. Come in Odinea Pamici, anche gli scatti di Helmut Grill della serie “The refuge” operano una rottura nella visione dell’abitare: più dei modellini esposti, le immagini intimoriscono per il contrasto tra quello che una casa dovrebbe evocare (sicurezza, famigliarità, protezione) e il contesto in cui è stata inserita (avversità atmosferiche, bombardamento di messaggi mediatici). Le fotografie di Karen Knorr, di Cristina Galliena e di Eva Frapiccini allontanano invece la percezione dalla linea tematica fin qui tracciata. Le opere dell’artista londinese portano in un ambiente pubblico, come il museo, in cui è vero che la presenza di animali al cospetto dei grandi artisti del passato crea scompiglio, ma non interviene più nello spazio domestico e casalingo nel quale ci si trovava. Anche i lavori di Cristina Galliena e di Eva Frapiccini spingono altrove e la precisione e chiarezza delle loro forme d’arredo non dà valore alle idee che ne sorreggono la creazione, decontestualizzandole.

Scendendo le scale, una nicchia accoglie delicatamente l’installazione dell’argentina Silvia Levenson, di cui al piano terra sono esposte le creazioni plastiche di boccette in vetro simili alle confezioni di unguenti comuni (shampoo, crema, profumo…) e che sono invece etichettate con “Love”, “Joy” o “Antidote”. Questi prodotti al confine con una produzione mass market rientrano nella sezione Gesti e cose da abitare dedicata alle arti plastiche, dove le cose sono al centro dell’attenzione: caffettiere, piatti, teiere e quant’altro appartiene ad un ambiente casalingo. I lavori di ceramica di Bertozzi& Casoni incutono un ironico ribrezzo esponendo una pila di piatti verosimiglianti contenente avanzi di cibo e dentiere mentre non sono altrettanto coerenti a questa lettura i lavori di ceramica monocroma di Helmut Grill né le “Fatine fatate fatali” di Corrado Bonomi, troppo favolistiche per rispondere alla dialettica instaurata.

Odinea Pamici, A lunga conservazione. Sala da pranzo.
Odinea Pamici, A lunga conservazione. Sala da pranzo.

Lasciata la sezione di design si ritorna all’ingresso per vedere le installazioni che con i loro suoni avevano introdotto la visita. In successione a “The firework house” di Bruno Muzzolini c’è il video di Palle Torssen, un’animazione 3D di spazi interni: “Evil Interiors” è un gioco di attribuzioni elaborato a partire dalla riconoscibilità di set cinematografici scelti tra famosi horror e thriller. La musica associata a ciascuno di questi film crea suspense tale da intimorire e, allo stesso tempo, suggerire il film ancor prima del montaggio video. Torssen interviene sull’ambiente interno con la simulazione dei set reali: è una successione di interiors presi da Hitchcock (Psyco), Lynch (Velluto blu), ma anche Kubrick (Shining, Arancia Meccanica) o Demme (Il silenzio degli innocenti) che ci sono noti perché celebri nell’immaginario collettivo e che sono evil, spaventosi, perché legati a scene di assassinio, di orrore o di raccapriccio. Dall’intuizione auditiva si passa al fatto cognitivo del riconoscimento, che non disdice ma anzi conferma l’aspetto perturbante presente nell’opera. “Il perturbante – scriveva Freud – è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.

Elena Cappelletti

D’ARS year 50/nr 204/winter 2010

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