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Shirin Neshat e Jan Fabre, il dolore e il sarcasmo

Due artisti di grande interesse, l’iraniana Shirin Neshat e il belga Jan Fabre si trovano agli estremi opposti dei valori presenti all’edizione 2017 de La Biennale di Venezia. Figura limpida e tragica la prima, figura punk-surrealista il secondo.

Shirin Neshat Roja (still dal video), 2016 Production Still. Copyright Shirin Neshat Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels
Shirin Neshat Roja (still dal video), 2016 Production Still. Copyright Shirin Neshat
Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels

Ambedue in mostra nella sezione degli eventi collaterali della biennale, sezione di cui bisognerà ridefinire i confini in futuro, dato che vi si trovano spesso opere fra le più interessanti della manifestazione.

La mostra The Home of my Eyes di Shirin Neshat è carica di storia politica e di storia etnica. Esposta al Museo Correr, ripropone i due linguaggi usati da Neshat, fotografia e cinema, arrivati a un livello di qualità “classica” attraverso la rielaborazione di modelli linguistici calati nell’atmosfera atemporale dell’Azerbaijan. Gli elementi espressivi del suo lavoro sono legati al cinema e alla fotografia modernista (anni 50 e 60), soprattutto al cinema di Antonioni e Pasolini. I forti chiaroscuri e i bianchi e neri ad alto contrasto mettono in rilievo le atmosfere da chiesa antica cui rinviano le pose dei personaggi ritratti in preghiera.

Shirin Neshat, “Kanan”, from “The Home of My Eyes” series, 2015, Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 x 101.6cm (40 x 60 in), Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany Visita il Museo Correr
Shirin Neshat, “Kanan”, from “The Home of My Eyes” series, 2015, Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 x 101.6cm (40 x 60 in), Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany
Visita il Museo Correr

L’Azerbaijan è terra di diverse etnie e culture religiose, un tempo parte della Persia e poi divenuto un secolo fa paese indipendente. Neshat cerca nei volti antichi e sempre diversi sematicamente, il segreto di una convivenza fra tutte le religioni del medio oriente, convivenza che è stata sempre pacifica, in contrasto con il presente dove gli integralismi cercano di riaccendere storie di scontro feroce che sembravano scomparse.

Come nelle sue famose foto della serie Women of Allah, la scrittura appare direttamente sulle parti chiare delle fotografie, sui volti o sulle braccia; è minuscola, come in un testo antico, e racconta storie narrate dalle persone miste a strofe di un poeta persiano del 1200, poeta pieno di comprensione e pietas.

Shirin Neshat Roja (still dal video), 2016 Production Still. Copyright Shirin Neshat Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels
Shirin Neshat Roja (still dal video), 2016 Production Still. Copyright Shirin Neshat
Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels

Il corto video ROYA è invece l’altra faccia del lavoro sulle sue radici. Enigmatico, per precisa scelta, il video inizia in maniera bizzarra con un cantante in un minuscolo teatro in un non luogo dell’Azerbaijan (come i teatrini dei film di David Lynch, Mulholland Drive ad esempio). Poi entra nel centro della tematica della lontananza, dell’estraneità e del rifiuto. In una drammatica landa deserta, una donna (evidentemente somigliante a Neshat) cammina in un terreno desertico fino a incontrare una donna più anziana che cerca di abbracciare ma da cui viene scacciata.

Il problema delle origini e della separatezza, del dolore, del passaggio passato/presente come necessità è tradotto in immagini di forte impatto. Perfezionando il suo linguaggio Neshat si prepara a un nuovo capitolo del suo lavoro.

Greek gods in a body landscape, Fabre Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba
Greek gods in a body landscape, Jan Fabre, Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba

Dal lato opposto, quello delle trasgressioni selvagge e della “maleducazione linguistica”, il “bad boy” Jan Fabre viene proposto con una retrospettiva: Glass and Bone, curata da Giacinto di Pietrantonio, Katerina Koskina, Dimitri Ozerkov e presentato dalla GAMeC all’Abbazia di San Gregorio a Venezia. Come usciti da un romanzo neogotico, monaci composti da ossa bovine segate danno subito il tono della mostra che continua con un uso quasi esclusivo del vetro.

Skull with squirrel 2017, Jan Fabre Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba
Skull with squirrel 2017, Jan Fabre
Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba

Un lavoro sviluppato nel corso degli anni e ripreso oggi secondo la linea (interessante) dei ritrovamenti e dei legami, come si vede spesso nella Biennale diretta da Christine Macel. Il vetro scelto come materia di base è legato a Venezia ed è purtroppo divenuto uno degli elementi del kitsch turistico. Ma nel lavoro di Fabre prende un efficace aspetto “perverso”, eccentrico, ridiventa un materiale espressivo che serve a creare quell’atmosfera impregnata di punk, Fluxus e Surrealismo tipica dell’artista.

The catacombs of the dead street dogs (2009-2017), Jan Fabre Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba
The catacombs of the dead street dogs (2009-2017), Jan Fabre
Courtesy Gamec- photo Attilio Maranzano, copyright Angelos bvba

L’iconografia di Fabre si concentra sulla “vanitas”; scheletri piccoli e grandi, umani e animali tenuti fra i denti di teschi, scheletri di animali irriconoscibili e inquietanti che alla fine si ritrovano in una rappresentazione tutta in vetro di coriandoli, stelle filanti e ossa. Rappresentazione del “Carnevale della Morte” tipica dell’Espressionismo ma anche delle “danze macabre” nordiche medievali.

Questo amore per la rappresentazione della morte è oggi arrivato a Subodh Gupta e finalmente nell’anche troppo famoso teschio di diamanti di Damien Hirst. Ma il lavoro di Fabre come il lavoro di Shirat hanno il dono di non farsi omologare nelle linee del sistema dell’arte.

Lorenzo Taiuti

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