La rivista nel 2022 è stata trasformata in archivio di contenuti.

Siamo tutti Stregoni: l’arte dello scambio

Stregoni è il nome di un laboratorio musicale dal vivo fatto di concerti-workshop organizzati nei centri profughi di tutta Italia per raccontare le persone che vivono in questi specifici non-luoghi

IMG_2166
Stregoni: un momento della performance. ph Associazione Offset

Solo il giorno prima – appena in tempo quindi – avevo letto di Stregoni, l’happening musicale che si sarebbe tenuto nella Casa d’arte futurista Depero, all’interno di I like Mart, progetto annuale ideato da Mart e Associazione Offset (e supportato dalla Provincia autonoma di Trento e dal Comune di Rovereto) con l’obiettivo di intercettare nuove fasce di pubblico, proponendo fruizioni ed esperienze museali diverse da quelle tradizionali. Direttamente dalla pagina Facebook apprendo della volontà dei due musicisti, Johnny Mox e Above the tree, di dare “un suono preciso allo sgretolamento delle politiche europee in materia di immigrazione e diritti umani“.

Al centro lo smartphone di un rifugiato, dispositivo imprescindibile per arrivare in Europa – perché le transazioni bancarie spesso avvengono proprio attraverso ricariche telefoniche (ma anche più semplicemente per la funzione GPS); Johnny Mox campiona in diretta un brano musicale presente sul cellulare e crea dei loop, poi completati dai suoni distorti di Above the tree: su questa base possono intervenire gli altri ragazzi, ospiti dei centri di identificazione ed espulsione, cantando o suonando gli strumenti a disposizione. Le musiche, solitamente bloccate nelle loro grandi cuffie, vengono così liberate e condivise, sprigionate dal confine insieme a loro; e si contamineranno a vicenda con le nostre sonorità.

IMG_2154. res
Stregoni: un momento della performance. ph Associazione Offset

Il concerto a breve sarebbe iniziato, non potevo sapere l’ora perché, ammassati nel pronao di Casa Depero, non avevo spazio per estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans. Ecco Johnny Mox che inizia a smanettare, due ragazzi di provenienza africana si fanno largo tra il pubblico per andare in scena e impugnare il mic: uno rappa deciso, cadenzato e aggressivo, l’altro canta più sommesso, borbottando come uno sciamano che ricerca la melodia delle proprie parole. Uno dopo l’altro, chi guardandosi attorno come a chiedere il permesso, chi creandosi spazio con la larghezza delle spalle, altri ragazzi escono per raccogliere gli strumenti ritmici a disposizione e, ognuno a modo suo, inserisce il suo battito, impegnandosi per allinearsi agli altri.

Con il passare dei minuti la musica si fa sempre più avvolgente, un mix di electro-tribalismo, hip hop e psichedelia-afro, i vuoti tra il pubblico si restringono: siamo circondati da ragazzi provenienti da Pakistan, Libano, Gambia, Nigeria e Siria; uno di loro indossa già un piumino invernale di due taglie più largo. Gli odori eterogenei dei nostri corpi si intensificano e, insieme alle vibrazioni che aumentano nell’aria, creano una jam di emozioni, una sagoma di teste e braccia che si muovono sincronizzate, di bacini e gambe che si strusciano; e persino io, che ballo raramente, vengo trascinato in questa danza estatica, multietnica, perché non c’era niente da fare: non potevo resistere all’umanità.

In quel groviglio di storie abbandonate dalla parola, ognuno curava le proprie ferite; scappavamo tutti da qualcosa: loro dalle loro terre, noi da qualcos’altro e con meno urgenza. Le differenze, le alternative che possiamo offrirci, arrivavano come la nota risolutiva, senza mediazione, se non quella incorporea della musica. I loro occhi lunari, spesso immortalati dai servizi dei telegiornali, si perdevano nell’happening e diventavano sorrisi; i nostri sguardi ciechi si facevano lucidi: ci sentivamo abbracciati, anche se eravamo soltanto molto vicini.

Dopo un’ora e mezza sono uscito da Casa Depero per prendere un po’ aria, mi sono avvicinato a un ragazzo che avevo visto scatenarsi in una danza frenetica, ho provato a parlargli in inglese ma lui non capiva e ha chiamato un amico che traducesse: si chiamava Alì, veniva dal Pakistan. Poco dopo esserci salutati, mi ha domandato: non parli italiano?

Giordano Bernacchini

share

Related posts