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Terraferma. L’imbalsamazione delle alterita’ culturali

Terraferma, già Leone d’Argento all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato scelto come candidato italiano per concorrere all’Academy Award for Best Foreign Language Film. Consapevole di poter infastidire la scorrevolezza della lettura, ho riportato la definizione americana perché la semplificazione italiana, Oscar al Miglior Film Straniero, presuppone delle frontiere tra film; e, data l’opera che sto per incontrare, iniziare l’articolo concedendo demarcazioni supplementari a quelle delle lingue poteva essere fuori luogo  -niente da fare, non si scappa da dentro o fuori un luogo.

Frame da Terraferma
Frame da Terraferma

Benché Linosa si sia prestata come set delle riprese, l’ambientazione delle vicende non viene mai nominata, forse per consentire un riferimento generale alla situazione dell’arcipelago delle Pelagie.

Le tre generazioni della famiglia Pucillo sono mezza carcassa di una famiglia estesa: nonno Ernesto, un consumato pescatore dalla barba radicata nei costumi locali; Giulietta, una giovane vedova dilaniata dall’immobilità che il suo paese impone a lei e a Filippo, il figlio ventenne sospeso tra l’eredità peschereccia ed il business del dissidente zio Nino, da tempo indaffarato a pescare turisti.

Il presente e l’orizzonte di Filippo sono nebulosi: da un lato si erge il mito del nonno, della leggendaria imbarcazione e di quel padre eroicamente portato via dal mare; dall’altro i discorsi e la mondanità dello zio squarciano un modo di vita che sembrava non prevedere alternative; e infine, aleggia la dissacrante lucidità della madre che vorrebbe affrancare le loro esistenze dalla staticità del luogo e da quel quotidiano pregno di passato.

In un impeto di veemenza, Giulietta sfregia la propria abitazione strappando la carta da parati, è il grado zero di un nuovo, agognato avvenire: vuole perforare la chiusura della propria realtà, abbandonare le totemiche fotografie incorniciate ed avvicinare la sua famiglia all’Italia continentale, che sente lontana, non solo geograficamente. Il progetto è di affittare la casa nel periodo estivo, usando la barca per portare in gita i turisti, così da racimolare denaro in prospettiva di una fuga dall’isola e dall’isolamento.

Nel corso di una battuta di pesca, Filippo ed Ernesto soccorrono un gruppo di uomini in mare, sono africani, tra i quali una donna incinta, Sara, col figlio: i due naufraghi, invece di essere trasportati fino alla costa e liberati sull’isola insieme ai compagni di sventura, vengono messi al riparo nel garage dove vive provvisoriamente la famiglia Pucillo e dove Sara partorisce una bambina. Lo stesso giorno, però, la Guardia di Finanza sequestra il peschereccio di Ernesto con l’accusa di non aver denunciato il trasporto e lo sbarco di clandestini sull’isola.

Quest’episodio segna lo spartiacque tra la Legge dello Stato e la realtà dell’isola.

Il comportamento dei pescatori segue da sempre un paradigma di valori, tra i quali quello di non lasciare uomini in mare, che adesso risulta ribaltato. La Legge designa come reato, più precisamente come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ciò che prima era un atto onorevole. Il dualismo tra i valori non scritti e la Legge dello Stato è anche una questione di elementi: la terra – sulla quale l’uomo ha inciso solchi che, col passare dei secoli, sono diventati norme scritte su carta – e l’acqua del mare – che non conosce un’unità di spazio e diritto, e che non ha memoria perché diviene sempre uguale nelle onde che cancellano qualsiasi traccia. I pescatori del luogo percepiscono la violenza della Legge a causa della codificazione universalmente esportabile che impone regole contrastanti con l’ethos scaturito nel loro habitat. Continuare ad agire secondo una tradizione viva, adesso, significa correre il rischio di vedersi sequestrare le imbarcazioni dalle quali dipendono; ma la legge degli isolani è nelle reti che, di volta in volta, vengono gettate in risposta ad eventi ed esigenze: per questa ragione si sentono oltraggiati ed impotenti nell’inflessibile rete di norme calata sull’isola dallo Stato.

Ma chi è l’oggetto che ha generato la disputa? Come si manifesta e, soprattutto, come viene presentato? Questa domanda obbliga ad interrogare la messa in scena, da parte di Emanuele Crialese, degli immigrati africani: come appaiono? Sono tentacoli spasmodici che emergono dagli abissi e che afferrano disperatamente la barca di Filippo, sono file di pacchi sorvegliati al molo e destinati all’iter per il rimpatrio, sono cadaveri recapitati a riva dal mare; ma, nella limitata pluralità delle loro rappresentazioni, essi hanno anche i lineamenti del presepe allestito accomodando Sara e i suoi due figli nel garage.

Frame da Terraferma
Frame da Terraferma

Questo altro, proveniente da un altrove, viene in-formato in un abuso di discorsi ed immagini che servono unicamente alla gestione. Stan Frankland userebbe la metafora del consumo bulimico, processo consistente nel trangugiare l’altro e vomitarlo in modelli ripetitivi che garantiscano l’immutabilità della sua immagine, così da imbalsamarlo e poterlo amministrare; proprio come fa, non solo mediaticamente, il governo italiano. In questo senso, e in questo film, la regia di Crialese si articola analogamente al meccanismo dello Stato. La creazione delle figure umane approdate sull’isola non apre ad un confronto con la loro cultura. Crialese ne filma le disgrazie, enfatizzando gli aspetti che possono suscitare misericordia; ma, come direbbe Jean-Luc Nancy, questa correttezza morale implica simultaneamente il ricevimento dello straniero e l’annullamento sulla soglia della sua estraneità.

I confini non diventano porosi mediante atti di solidarietà aprioristica: per entrare in interconnesione con l’alterità culturale è necessario esperire l’intrusione, sentendo l’attrito, gli aspetti imbarazzanti e diseguali. Tutto il resto è concessione di un angolo etnico, respingimento a scatola chiusa o camuffamento dello straniero nei nostri abiti.

Giordano Bernacchini

D’ARS year 51/nr 208/winter 2011

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