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Le capitali della moda

In un palcoscenico globale, allargato a realtà un tempo estranee alla creazione dell’abbigliamento, le quattro tradizionali capitali della moda si pongono ancora come poli capaci di mobilitare stampa e compratori.  Al di là delle tendenze e delle strategie di vendita, alcune sfilate ci raccontano qualcosa sulla cultura contemporanea.

capitali della moda
New York Fashion week (Wikimedia commons)

Il mese di sfilate nelle capitali della moda si è appena concluso senza novità eclatanti: in bilico fra ripresa economica e tensioni politiche la tentazione di guardarsi indietro è forte e recuperare il passato può diventare un rito scaramantico, più che mera autoreferenzialità. Oltre la nostalgia, alcune significative collezioni ci parlano comunque del nostro presente – se non del futuro – e di ciò che anima la cultura contemporanea.

New York: Calvin Klein

Raf Simons guida Calvin Klein da un anno soltanto, e quello appena passato non è stato un anno qualsiasi per gli States. All’indomani dell’elezione di Trump lo stesso Simons parlò del “momento peggiore per arrivare a New York”. Eppure ciò non gli ha impedito di immergersi totalmente in un lavoro di ridefinizione dell’identità creativa e culturale americana. Se già nella precedente stagione il denim, gli stivali da cowboys e le uniformi delle cameriere dei “diners” si erano sovrapposti all’appannato minimalismo del marchio, questa ultima sfilata rappresenta una summa dell’immaginario americano, anche quello più oscuro, che, nelle parole del designer, é “American horror, american dreams” (American Dream – sarcasticamente – è anche il titolo del nuovo attesissimo album di LCD Soundsystem).

capitali della moda
Calvin Klein Official – Sterling Ruby set of Spring 2018 CALVIN KLEIN show

Via quindi ai look dei film horror degli ’80 e ’90 e alle icone come la Sissy Spacek di Carrie (Brian De Palma, 1976), al lattice e alle stampe di Wharol (esiste qualcosa di più americano della Pop Art?), ma a quelle più cupe – Knives, The Ambulance Disaster e The Electric Chair. E poi il “sogno”, appunto, anche se destinato ad infrangersi: Dennis Hopper nel periodo Easy Rider, i colori sgargianti dei rodei e le frange delle cheerleader cristallizzati in un modernismo asettico e caotico allo stesso tempo. Il tutto in un set creato dall’artista ormai onnipresente al fianco di Simons, Sterling Ruby, un’installazione di pompon giganti, bandiere e secchi appesi al soffitto assieme a elementi inquietanti come le asce dei taglialegna. O dei serial killer: America Oggi.

Londra: Gareth Pugh

I designers inglesi hanno segnato l’immaginario dalla fine degli anni’90, quando Alexander McQueen e John Galliano cambiarono drasticamente anche il modo di comunicare la moda, attraverso sfilate scenografiche e narrative, una modalità ora scelta soprattutto dai grandi brand.

Una strada opposta è quella ora percorsa da Gareth Pugh, il video invece della passerella.
Questo ultimo progetto è un film di 16 minuti diretto da Nìck Knight – fondatore di SHOWstudio, la prima piattaforma digitale di documentazione del processo creativo – che mostra la nuova collezione in maniera distorta, un’interazione fisica e cerebrale fra Pugh e il perfomance artist Olivier de Sagazan che contamina l’immagine moda con la materia grezza, l’argilla, l’acqua e la vernice.

“È molto importante per me che il lavoro sia visto nel giusto contesto e talvolta è molto difficile con uno spettacolo tradizionale. Con il film puoi creare un mondo immersivo in cui le persone possono essenzialmente perdersi […] Sapere che avremmo presentato la collezione in questo modo ci ha veramente liberato anche in studio. Se avessimo fatto una sfilata non avremmo potuto realizzare qualcosa di così estremamente visivo”.

È dal 2009 che Pugh si avvale della tecnologia digitale (da segnalare il video realizzato per Pitti Uomo 2011), e i progressi tecnologici in corso potrebbero offrire a molti l’opportunità di sperimentare nuovi modi di presentare la moda. Ma non è una strada molto battuta e diventa difficile stabilire se Gareth sia all’avanguardia o non rappresenti già una sorta di nostalgia di un futuro auspicato.                                  

Milano: catalogo ragionato della nostalgia

Un bellissimo episodio di Mad Men ci mostrava, qualche anno fa, l’invenzione, negli anni ’60, del concetto di nostalgia a uso pubblicitario, complice il diffondersi di un immaginario condiviso alimentato in primis dalla tv. La nostalgia riscopre il passato elidendone gli elementi disturbanti, il che, quando si parla di moda, può essere molto utile alla sollecitazione del desiderio.

La riscoperta del (proprio) passato è anche una rivendicazione identitaria e, se non ha troppo i connotati di un richiamo all’ordine, la valorizzazione di un know how creativo e manifatturiero importante. Ma ci può essere in ciò un’alternativa a questa “custodia del patrimonio”?

Gucci, con l’elaborazione di un vintage estremo all’interno del quale vale ogni singola madeleine da mischiare a innumerevoli altre, si rivela un marchio con una grande capacità narrativa; le mille diverse storie, scaturite dalla memoria, creano un presente ideale e hanno il sopravvento sulla “tendenza”, che non c’è più, perché se il discrimine è il valore affettivo dei ricordi chi può stabilire una gerarchia in nome di una tendenza?

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Versace Official – Pop Art prints bring back a timeless aesthetic incorporating pop culture #VersaceSS18

Tutto il potenziale della nostalgia si è rivelato nella sfilata omaggio della maison Versace. I vent’anni dall’assassinio di Gianni Versace sono stati ricordati non in una sede espositiva (in Italia la moda entra nei musei in modo discontinuo) ma con una sfilata di capi iconici dalle collezioni dei primi anni ’90. L’entusiasmo alle stelle di pubblico e buyers per il probabile exploit commerciale è stato la rappresentazione di un impossibile ritorno a una golden age cristallizzata nell’immagine di cinque top model dell’epoca che, mentre altre loro coetanee compaiono sulle passerelle per quello che sono oggi, appaiono immutate: un esorcismo contro lo scorrere del tempo.

Parigi: Comme des Garçons – Undercover

Parigi soffre in parte degli stessi problemi di Milano, il legame con un passato ingombrante è forte, anche se le strategie dei luxury brand sono sufficientemente aggressive da garantire un rinnovamento di facciata.

Ma Parigi è la più importante piazza internazionale e da decenni ospita creatori da tutto il mondo che aprono prospettive diverse.
Comme des Garçons regala come sempre momenti di appagamento visivo e cerebrale. Questa volta si può ipotizzare a lungo sul collage di elementi pop-kawaii – un plus di decorazione che ci parla di accumulo e spreco,  sui riferimenti artistici a altre epoche di “felice” decadenza – crinoline e stampe di Arcimboldo, come sulla presenza di una figura ricoperta di indumenti bianchi che rivela due ali sulla schiena.  “Graffiti multidimensionali”, la definizione di Rei Kawakubo, che ha sintetizzato l’ansia per il tempo presente (paradossalmente, o forse no, la sfilata si è tenuta nell’edificio brutalista che ospita l’ambasciata russa) in un pastiche surreale che sfocia in desideri salvifici.

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Undercover Official – SS18 sfilata e backstage

Ma è stata la collezione Undercover – disegnata da Jun Takahashi – a chiudere il cerchio con New York. Takahashi è amico di Cindy Sherman, e i suoi autoritratti caratterizzano molti pezzi della nuova collezione. Un altro artista che si aggiunge alla lista di chi collabora attivamente con un designer, in questo caso la doppia natura di Sherman – la vera Cindy e quella che finge di essere nella sua ritrattistica – ha ispirato lo show.  Le modelle a coppie come gemelle, ma con abiti diversi, reversibili, una a mostrare l’interno di quello mostrato dall’altra: “Le persone hanno due facce“, ha detto Takahashi. Ambivalenza come per l’American horror, american dreams di Raf Simons, e per il finale vere gemelle con i vestiti azzurri delle piccole Grady di Shining. Tutto sta a indicare che l’immaginario e l’arte americana ci faranno ancora compagnia nel prossimo futuro, nella moda e non solo.

Claudia Vanti

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