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MISS CAROLYN CARLSON È TORNATA. OMAGGIO AL GENIO!

Nel Libro tibetano della vita e della morte Carl Jung scrisse Due o più eventi simultanei, la cui coincidenza può sconvolgere l’esistenza di colui che li avverte.
È questo il punto di partenza del nuovo spettacolo della coreografa statunitense Carolyn Carslon, Synchronicity, riunitasi per l’occasione con il suo storico collaboratore John Davis e in Italia di recente al Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona.

Synchronicity, Carolyn Carslon, copyright Olivier Madar
Synchronicity, Carolyn Carslon, copyright Olivier Madar

Statunitense di nascita, parigina d’adozione, Carlson è uno dei pochi esempi di coreografa che sa plasmare il corpo, ogni centimetro di esso, trasformandolo in qualcosa di più ampio, e che è in grado di far emergere i pensieri più profondi rinchiusi in noi.
“Figlia” di Martha Graham e Merce Cunningham, di quella rivoluzione artistica che ha investito l’America dagli anni ’30 in poi e che ha visto il gesto diventare protagonista e  movimenti, pose, respiri fondersi in un tutt’uno diventando arte.
Sbarcata in Europa negli anni ’70, incontra la renovatio cominciata poco prima dalla coetanea Pina Bausch (fortemente presente in questo spettacolo con un chiaro omaggio al celebre Café Müller). D’ora in poi, questi saranno i suoi riferimenti e ben poco si lascerà coinvolgere dai giovani “scapestrati” americani che arriveranno dopo di lei: David Parsons, Alvin Ailey, Daniel Ezralow e Moses Pendleton. Con loro la danza diventa musica. Con Carolyn diventa respiro.

Synchronicity, Carolyn Carlson, main image object
Synchronicity, Carolyn Carlson, main image object

Synchronicity è l’espressione della sensibile e consapevole percezione di quegli avvenimenti che sconvolgono il corso di una vita: una perdita, il vuoto che si genera attorno ad essa, la fatica di andare avanti e la necessità di un sostegno, di braccia forti pronte a parare le tue cadute. Braccia che respingi, ma che cerchi in continuazione. Braccia delle quali non puoi fare a meno perché necessarie. Ricordi. Il pensiero di chi non c’è più e che vorresti. Un pensiero che paralizza. Come gli amori impossibili o devastanti che, inevitabilmente, incontriamo tutti sul nostro cammino. Amori consumati velocemente o perpetue rincorse tra la luce e l’ombra di scenari spogli, fondamenta fragili di questo sentimento in un terreno altrettanto fragile. Arido è il paesaggio finale. Arido è il cuore.
Una partenza, temporanea o permanente che sia, poco importa. Sono entrambe fatte della medesima attesa: attesa prima dell’addio, attesa di un ritorno.  Gli Stati d’Animo di Boccioni prendono vita in stazioni piene di volti tutti diversi, ma così uguali per sentimenti ed emozioni. Ci sembrano meno lontani, così. Meno estranei. Gli addii, Quelli che Vanno e Quelli che restano si creano grazie ai corpi in movimento degli artisti.
I danzatori si tuffano nelle acque profonde del pericolo, della ribellione, del rimpianto e della follia e attraversano queste corrispondenze simboliche che trasformano lo sguardo per sempre.
Uno spettacolo fatto di respiri, di silenzi, di attese, di gesti ripetuti e delicati che diventano, via via, sempre più ampi, fino a trasformarsi in spazio. Salti che non lasciano segni né a terra, né nelle orecchie. Salti tra un’emozione e l’altra così veloci e sconvolgenti da non essere immediatamente riconoscibili, né prevedibili. Da vivere solamente, magari con le lacrime agli occhi e un pugno nello stomaco dall’inizio alla fine, per quanto intensi sono. Arte che ti avvolge, ti stringe, ti fa male, ti costringe a guardare oltre te, a guardarti dal di fuori e, poi, improvvisamente, ti porta a contatto con le tue viscere.
Un’arte che diviene totale. Un’arte che si fonda sull’unione tra genio creativo, contesto, pubblico, spazio. Che diviene tutte queste cose, superandole.
Regia alla Bob Wilson, più di Giorni Felici che dei celebri Voom Portraits; scenografia che evoca il lavoro The Passions di Bill Viola, in particolare nel penultimo quadro coreografico dove la follia umana e l’avidità si palesano in una grottesca ultima cena albina; video sullo sfondo che trasmettono le sequenze coreografate e i ballerini stessi in totale slow motion in bianco e nero, proprio come nei preludi dei film di Lars von Trier.

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Di non minore importanza, la musica come collante di tutto questo flusso interiore: Tom Waits, Ry Cooder, Henry Purcell, persino Bruce Springsteen e la futuristica e visionaria Laurie Anderson. E Lui, sopra tutti: Leonard Cohen con la sua Chelsea Hotel, al culmine dello spettacolo, simbolo intoccabile di quella malinconia e solitudine lacerante, trancia il fiato.
Ora tutto è chiaro. Spaventosamente chiaro.
Ed è proprio in quel momento che una porta sullo sfondo si apre e lascia entrare uno spiraglio di luce tra il buio di questa esistenza.

Per saperne di più su date e tournées: http://www.ccn-roubaix.com

 Gaia Badioni

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