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Arte e lotte sociali: dall’Italia all’Europa

Concludiamo con questo articolo le riflessioni iniziate nel numero scorso sui rapporti fra lavoro culturale e movimenti di opposizione sociale (“Macao: senza movimento l’arte muore”, D’ARS n. 210, estate 2012).

Occupy Wall Street Manifestanti a NewYork
Occupy Wall Street
Manifestanti a NewYork

A Milano l’esperienza di Macao, dopo lo sgombero della Torre Galfa e il breve intermezzo dell’occupazione durata due soli giorni di Palazzo Citterio (adiacente a Brera, sotto vincolo ministeriale e in restauro permanente – ma non effettivo – da quarant’anni), sembra avere trovato una relativa stabilità nella sua nuova sede. “Macao – centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca” occupa infatti dal 16 giugno scorso la Borsa dell’ex Macello comunale, in viale Molise 68. Una benevola neutralità dell’assessore alla cultura Boeri e di tutta la giunta milanese ha consentito infatti agli occupanti di organizzare con più calma le proprie attività, che ruotano oggi attorno a una decina di tavoli tematici, che vanno dal video alla partecipazione, dalla sperimentazione a “teoria e azione”, oltre a quelli più classicamente organizzativi, sino a un tavolo “autocostruzione  + città bene comune”. Naturalmente si può discutere se sia utile estendere a tal punto la categoria di “beni comuni” applicata indifferentemente a beni materiali (l’acqua, l’energia) e immateriali (la cultura), a situazioni (un luogo occupato) e concetti o pratiche (l’arte): ma dobbiamo riconoscere che la stretta obbedienza al pensiero di Toni Negri non ha sinora impedito a Macao di muoversi in maniera duttile e di mantenere la centralità del metodo di partecipazione e di condivisione.

Se questo è ciò che avviene in Italia, che cosa possiamo dire del resto d’Europa? Vi sono esperienze analoghe in altri paesi? C’è, sul terreno della cultura e dell’arte, una situazione di comunicazione, di scambio di idee, fra movimenti che si riconoscono, se non sul piano delle teorizzazioni, almeno su quello delle pratiche? Le condizioni di base sembrerebbero favorevoli. Non c’è dubbio infatti che, almeno in parte, queste esperienze di ribellione sono causate (o almeno intensificate) dalle politiche di austerità e di forte riduzione dei finanziamenti pubblici alle attività culturali, e questa è una situazione comune, oggi, a tutti i paesi d’Europa. Inoltre, a livello politico, una qualche parentela fra i movimenti di diversi paesi si è già realizzata dal 2009 a oggi, e alcune esperienze (gli “indignados” spagnoli, il movimento Usa “Occupy Wall Street”) hanno funzionato come catalizzatori di movimenti analoghi in altri paesi. Nel campo della cultura e dell’arte, però, ciò si è verificato in misura minore. Qui le particolarità nazionali sembrano aver giocato un ruolo più rilevante. E si può pensare che queste differenze di culture e di pratiche affondino le loro radici in un passato storico neppure troppo recente, risalendo forse alle particolari caratteristiche delle lotte sociali in Italia negli anni 1960 e 1970. Queste particolarità hanno prodotto pratiche diverse soprattutto riguardo allo strumento dell’occupazione. L’occupazione è una forma di lotta o di riappropriazione conosciuta in tutta l’Europa, e molto praticata soprattutto in paesi nordici come la Germania o i Paesi bassi, al pari e più dell’Italia. Tuttavia, in Italia le occupazioni di ogni tipo hanno prodotto situazioni di illegalità endemica, perché raramente i poteri pubblici e quasi mai i proprietari privati hanno aperto delle trattative con gli occupanti, o squatter, creando situazioni in cui, anche nei casi in cui le istituzioni si dimostravano disponibili a una mediazione, la trattativa non si realizzava. Uno degli esempi più tipici è stato, a Milano, il caso dello SPA (Spazio Pubbico Autogestito, ex Centro sociale) Leoncavallo, che dal 1976 a oggi è stato sgombrato e ha occupato tre volte in tre luoghi diversi, ma sempre senza riuscire a realizzare alcuna trattativa con la proprietà.

Kunsthaus Tacheles, Berlin
Kunsthaus Tacheles, Berlin

In altri paesi, invece, la pratica dello squatting (occupazioni selvagge senza sanatoria di alcun tipo) ha riguardato quasi esclusivamente le occupazioni private, realizzate da individui o famiglie senza casa (gruppi underground, migranti), mentre le occupazioni “collettive”, di tipo politico o culturale, si sono quasi sempre risolte con una trattativa (spesso abbastanza rapida) con le istituzioni o i proprietari privati, che legittimava la presenza degli occupanti in cambio di un contributo simbolico (a volte di un vero e proprio canone di locazione). L’esempio forse più famoso di centro culturale e artistico di questo tipo è il Tacheles di Berlino, abbandonato a giugno di quest’anno dai suoi inquilini a seguito di una sentenza del tribunale sollecitata dalla proprietà (la HSH Nordbank), ma che era durato per ben 22 anni consecutivi. L’edificio, costruito nel 1908, aveva avuto una storia travagliata, e dopo la seconda guerra mondiale si trovava nel territorio di Berlino est, dove non ebbe mai un utilizzo stabile, e fu destinato alla demolizione. Dopo la caduta del muro, nel 1989, la demolizione avrebbe dovuto essere completata, ma a quel punto intervenne un gruppo organizzato di artisti, che nel 1990 occupò ciò che restava dell’edificio, dandogli il suo nuovo nome (“parlar chiaro”, in yiddish). Il Tacheles divenne, per tutti gli anni 1990 e il primo decennio del nuovo secolo, uno dei centri d’arte “alternativi” più famosi d’Europa e del mondo. Con le pareti esterne ricoperte di murales, i cortili pieni di sculture fatte con materiale di scarto in stile cyberpunk, Tacheles ospitò mostre e spettacoli di gruppi come i Mutoid Waste Company e Spiral Tribe, ma non fu mai più che un luogo in cui si ritrovavano singoli artisti, non un vero e proprio centro di progettazione e azione collettiva. L’organizzazione comune degli artisti si limitava a tenere i contatti con la proprietà e pagare un regolare affitto, e a tenere aperta una certa discussione sull’utilizzo presente e futuro del posto. Tacheles divenne così il modello per molte iniziative (che potevano partire da gruppi di base come dalle istituzioni) che offrivano uno spazio e qualche limitato servizio comune a giovani artisti. Il termine (a volte usato) di “centro sociale” non deve però trarre in inganno: non si trattava di vere autogestioni degli spazi da parte di coloro che vi partecipavano, ma di una semplice redistribuzione di spazi gestita dalle istituzioni o da associazioni “ufficiali”, con scarsa capacità di realizzare vere e proprie pratiche di interazione fra le soggettività presenti.

Antonio Caronia

D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012

 

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