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Cannes 2013. Il cinema (re)agisce

Domenica 26 Maggio si è conclusa la 66.ma edizione del Festival di Cannes con la consegna della Palma d’Oro al regista Abdellatif Kechiche per il potente La vie d’Adèle. Tratto dalla grafic novel Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh, il film racconta la storia d’amore di due ragazze, la scoperta dell’altro, la nascita del desiderio e la passione e non lesina il tempo delle carezze che sorprendono lo spettatore. Il verdetto della giuria guidata da Steven Spielberg amplifica il messagio del film: la proclamazione è arrivata immediatamente dopo che il parlamento francese ha approvato la legge a favore delle unioni civili e dell’adozione per le coppie omosessuali, decisione che ha sollevato movimenti di protesta, quasi che le coppie omosessuali fossero la personificazione del Male. La finzione ha superato la realtà affrontando il tema senza riserbo e interpretandolo nella dimensione emotiva, che è l’interesse originario del regista: Kechiche non ha voluto fare un’opera di denuncia (forse ce ne sono troppe e capziose) quanto riallacciarsi al mito e parlare di un amore assoluto, senza legami, senza condizionamenti.

Abdellatif Kechiche, La vie d'Adèle © FESTIVAL DE CANNES 2013
Abdellatif Kechiche, La vie d’Adèle
© FESTIVAL DE CANNES 2013

La vittoria di La vie d’Adèle è solo l’apoteosi di una teoria di opere dalle tinte forti passate sulla Croisette nell’arco dei dodici giorni di festival. Da Il Grande Gatsby di Baz Lurhman fino a Only God Forgives di Nicholas Winding Refn passando per La grande bellezza di Paolo Sorrentino, i film di quest’anno mi fanno pensare a un quadro di Rothko, ai cromatismi che compongono le tele senza definire limiti in senso geometrico, ma in modo percettivo e fornendo lo spazio ad un senso altro. Cannes non è estraneo alla crisi e sarebbe stato colpevole di omissione di coscienza non prenderne atto: l’arte (e il cinema) non ha soluzioni per pacificare gli avversari delle unioni civili degli omosessuali e non detiene la bacchetta magica con cui cambiare il corso del mercato, ma è un viatico per aprirsi al mondo, polemizzare e cercare una soluzione sia in senso finalista sia in senso materialista. I film che ho avuto modo di vedere e quelli di cui ho letto e attendo di vedere sono legati tra loro da una dimensione intimista marcata, che spazia in drammi famigliari o vicende private affrontati in modo vigoroso che rimette in discussione l’individuo di fronte alla Storia.

Il vorticoso ritmo di Il grande Gatsby ha aperto in maniera elettrizzante: un mondo al baratro quello del 1925, anno in cui Francis Scott Fitzgerald chiudeva il romanzo trasposto in immagini da Baz Lurhman, e un mondo sull’orlo del baratro quello di oggi visto attraverso i protagonisti interpretati da Leonardo Di Caprio (Gatsby) e Tobey Maguire (il narratore). Si ritrovano l’horror vacui, i mirabolanti movimenti di macchina nelle scene di massa, la colonna sonora volutamente fuori dal tempo e la recitazione sopra le righe che sono cifra stilistica di Baz Lurhman (Romeo+Giulietta o Moulin Rouge sono i suoi fiori all’occhiello); in questo teatro potremmo rivedere noi stessi: svelarlo, però, fa paura. Tinte forti e contrasti decisi si ritrovano anche in Jeune et jolie, Heli e Le passé che parlano e fanno parlare di pienezza della vita e di senso di vuoto congiungendo contraddizioni proprie della natura umana. François Ozon propone il “ritratto di una diciassettenne lungo quattro stagioni e in quattro canzoni”: a dispetto di quello che recita la trama, Jeune et jolie scava nell’intimità di Isabelle (la bellissima Marine Vacht) che ha tutto e non ha niente poichè incapace di trovare l’amore, si concede per soldi a ricchi borghesi parigini senza rimproverarsi quando viene scoperta. Il senso della vista risulta sovraesposto fino alla scoperta del dramma da parte della polizia e della madre, quando la parola pietrifica e determina una rottura narrativa e visiva a favore dell’udito che isola nel silenzio sia le scene di sesso, che nella prima parte garantivano alla protagonista e allo spettatore un “riempitivo”, sia le scene famigliari che nella seconda metà si susseguono senza conferire senso alcuno a causa della loro incomunicabilità. Se Ozon è rimasto fuori dal Palmares, Amat Escalante ha vinto il premio come miglior regista per il dramma – thriller Heli. Lontano dagli ambienti borghesi di Parigi, Escalante mostra la fermezza di chi nonostante la povertà e la facilità di accesso a facili compromessi combatte in nome di valori alti. Il personaggio di Heli è agli antipodi di quello di Isabelle, ma è parimenti solo, anche se la solitudine ha un significato differente: circondata da una famiglia e da amici, il vuoto di Isabelle è quello dell’anima, mentre quello di Heli è d’ambiente. Heli abita in una baracca in mezzo al deserto messicano, ha una moglie che vorrebbe lasciarlo e non ha nessun amico con cui confidarsi: Heli è solo, perchè solitario è il mondo che abita ma in cui ha deciso di far valere la sua fortezza di spirito. Heli è il novello crociato, che combatte contro la corruzione della polizia, l’indifferenza dell’uomo e la barbarie mantenendosi saldo anche sotto tortura. Il mondo di Escalante è arido come arido è il deserto in cui abita il protagonista, che è il solo a possedere qualcosa, che sono i principi in nome dei quali lotta con il rischio di morire. Diverso è il film Le passé dell’iraniano Asghar Farhadi. Abbracciando toni melodrammatici, Farhadi narra la storia di un matrimonio apparentemente al capolinea e per cui Marie chiede la parola fine. Per l’interepretazione di Marie, Berenice Béjo ha ricevuto il premio come miglior attrice: è la rappresentazione di una donna dura, che rifiuta gli altri (amanti o figli, non importa) scavando la propria solitudine.

François Ozon, Jeune et jolie © FESTIVAL DE CANNES 2013
François Ozon, Jeune et jolie
© FESTIVAL DE CANNES 2013

I cinque lungometraggi citati tra i venti presentati sono un modo per inquadrare un possibile andamento dell’ultimo Festival, all’insegna di una polemos giocata sull’isolamento innato, esterno o costruito degli individui protagonisti. Di fronte ad una crisi, si vacilla con facilità e si perdono i punti di riferimento ma tagliare con il passato, come fa Marie di Le passé, non è la soluzione per trovare una nuova strada. Singolarmente, i film riflettono i modi con cui si costruisce l’essere (personaggio): non è mai un atto innocente, ma è sempre un gesto violento così come lo è l’arte, che può essere un campo minato per chi la pratica in qualità di autore e per chi la esperisce come spettatore. La vie d’Adèle è un film di forte impatto che non lascia indenne né critica né pubblico: il cinema può ancora (re)agire nel mondo di oggi.

Elena Cappelletti

D’ARS year 53/nr 214/summer 2013

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