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Il museo demuseificato

PARTE I

MAXXI, 2011 Foto di Paolo Quadrini
MAXXI, 2011
Foto di Paolo Quadrini

Negli ultimi anni il cosiddetto mondo dell’arte è stato investito da profonde e rapide trasformazioni, cosicché il dibattito sul ruolo del museo contemporaneo  è divenuto quanto mai urgente. Ne danno testimonianza l’ingente pubblicistica sul tema nonché le numerose e varie occasioni pubbliche d’incontro e confronto sulla scottante questione. A questi incontri si è andato ad aggiungere il ciclo di conferenze a mia cura (Po)Etiche del museo d’arte contemporanea. Saperi ed esperienze a confronto su etica  e museo nella contemporaneità (21 aprile – 24 maggio 2011 – PAN | Palazzo delle Arti Napoli). Per esso ho pensato – in ideale continuità e ad integrazione con il dibattito in corso – di sollecitare un gruppo di studiosi, tutti inseriti a vario titolo in ambito accademico, con degli interrogativi che riguardano l’attuale condizione dell’istituzione museale, che viene a essere messa in questione a partire da due prospettive, quella etica e quella estetica. Ne è emerso alla fine un radicale ripensamento delle categorie di base di quella coscienza storica, come memoria e conservazione, della cosiddetta cultura occidentale; ovvero una vera e propria de-museificazione del museo.

Giampiero Moretti (Il museo come questione complessiva della cultura europea) esordisce con dei brevi quanto rivelatori cenni storici dell’istituzione museale in ambito europeo. Il suo sintetico excursus storico pone al centro la questione del progressivo mutamento del ruolo del museo  – più o meno a partire dal secondo dopoguerra –  da zona “sacra” alla quale il pubblico accede “con una sorta di timore reverenziale molto forte”,  verso uno spazio aperto che cerca di incontrare la socialità circostante, divenendo non solo sito di conservazione del bene artistico ma spazio espositivo che si prefigge di coniugare la realizzazione di mostre a tema ad attività didattiche. Moretti evidenzia come questa sorta di graduale desacralizzazione del museo sia parallela e converga d’altro canto alla progressiva smaterializzazione dell’oggetto artistico perseguita – intorno alla metà degli anni sessanta –  dalle pratiche artistiche della neo-avanguardia. Infatti, sostiene Moretti,  è con l’avvento di poetiche visive -quali Body art,  Land Art, Arte concettuale, Fluxus- che l’identità originaria del museo viene minata alle sue fondamenta. Il museo si trova a un bivio, che sembra preannunciarne il tramonto: o abbattere le proprie mura oppure essere uno edificio che conserva non le opere d’arte ma documenti di esse ovvero sue registrazioni acustiche e video.  Tutto ciò ovviamente si lega alla questione della memoria storica; è in questo stesso periodo, infatti, che l’artista  – riprendendo ed ampliando  il discorso aperto dalle avanguardie storiche sulla cancellazione della passato – “arriva a farsi totalmente beffa della cultura (della tradizione), tanto da distruggerla completamente e quindi da annullarla”. Tutto ciò porta Giampiero Moretti a concludere il suo intervento con una considerazione  tanto mesta quanto sagace,  citando e attualizzando  uno scritto del 1975 di Ernst Gombrich.  Difatti Moretti, sostiene con Gombrich che il criterio di selettività del museo sia un suo compito inalienabile; e che, per quanto concerne la questione della fruizione dell’opera d’arte, un certo grado di riverenza verso l’opera d’arte non avrebbe dovuto essere estromesso dal museo, poiché essa è una condizione indispensabile dell’identità di quest’ultimo.  Ma visto e considerato che l’arte dell’epoca postmoderna è antinomica con quella della modernità, e che il museo in fin dei conti è legato necessariamente a quest’ultima e non la prima, allora l’arte dei nostri tempi non necessita più del museo.

Dario Giugliano (Il museo come questione complessiva della cultura europea) ha problematizzato “l’idea secondo cui il concetto di museo, nel senso di un deposito memoriale, sia alla base di quella che si riconosce essere come la cultura europea e che si identifica a partire dalla sua storia”. Attraverso un confronto con i testi di Goethe, Hoelderlin, Riegl, Sedlmayr, ciò che egli ha sottoposto a critica è stata “la possibilità, insita nella medesima idea originaria di museo (cfr., per esempio, il Theatrum memoriae di Giulio Camillo), che il reale sia un tutto strutturato organicamente e che si possa, attraverso una seriazione delle sue parti, risalire a questa idea complessiva dello stesso.”
Giugliano sostiene che è fondamentale soffermarsi sulla questione del rapporto che l’estetica filosofica intrattiene con il concetto di identità-essenza del museo. E lo fa, (richiamandosi al post-strutturalismo francese e alla decostruzione) usufruendo della nozione derridiana di “controfirma”.  Appoggiando quindi le tesi per le quale qualsiasi opera per esser riconosciuta come opera d’arte, e dunque per aver accesso al museo, può fare sì a meno della “firma” dell’autore, ma non della “controfirma” di una poetica collettiva contemporanea dell’arte ovvero di una comunità interpretante a partire dalla quale, e questo è il punto centrale, “tutta l’arte del passato può essere riletta e riserializzata dal museo”.

Per Aldo Masullo (Musei, transiti verso il futuro)  i musei della nostra epoca per continuare ad avere un senso devono promuovere le innovazioni autentiche, cioè quelle che siano in grado di renderli transiti verso un’umanità nuova. Il che può realizzarsi mediante l’intensificazione delle energie. Dunque Masullo sostiene che la visione, l’ideologia conservativa dei musei venga destituita dal suo compito principe che è quello di esporre, catalogare, conservare, archiviare gli “ergon”, cioè il lavoro compiuto, il risultato, l’opera.  Le opere d’arte, afferma Masullo, non valgono in quanto prodotto bensì in quanto generatrici e traccia dell’ “enérgeia”:  pertanto Masullo asserisce che “il problema fondamentale per una museologia e per una museografia veramente del nostro tempo che è un tempo di transito, sia quello di far sì che nei musei divenga visibile non il risultato, l’ “ergon”; ma divenga visibile l’ “enérgeia”. Quindi che i musei divengano, in qualche modo, dei laboratori viventi dove le giovani energie vengano via via, attraverso la conoscenza, avviati a far ripresentare in tutta la sua forza l’ “enérgeia”, l’attività creativa, il passaggio, il transito verso il nuovo. E’ nel solco aperto dalla lectio di Aldo Masullo nonchè dalla relazione di Dario Giugliano che si innestano sperimentalmente sia l’intervento del gruppo MeLA ( European Museums and Libraries in/of the age of migration), intitolato Verso un museo post-coloniale  a cura di Iain Chambers, sia quello a quest’ultimo profondamente correlato a cura di Silvana Carotenuto, Danze, donne e dimore dell’archivio del mediterraneo. Due conferenze queste di estrema attualità e di profonda valenza euristica,  delle quali per ovvi motivi di spazio, tratterò in maniera approfondita nella II° parte di Il Museo demuseificato, nel prossimo numero di D’Ars.

D’ARS year 51/nr 208/winter 2012

 PARTE II

Yinka Shonibare, MBE Fake death picture (the suicide - Manet), 2011
Yinka Shonibare, MBE Fake death picture (the suicide – Manet), 2011

Ad apertura di discorso occorre subito ribadire a beneficio di chi non avesse avuto l’occasione di poter leggere la parte I° (D’Ars, n° 208) di questo contributo intitolato Il museo demuseificato, sintetico resoconto del ciclo di conferenze, curato dal sottoscritto, (Po)etiche del museo d’arte contemporanea (PAN|Palazzo delle Arti Napoli).
La prima parte del mio report di (Po)etiche del museo si soffermava su quegli interventi di carattere eminentemente filosofico, che rimettevano radicalmente in questione l’identità ed il ruolo del museo d’arte in Europa, scevri da qualsivoglia intenzione né di proporre né tantomeno di prospettare una nuova visione di esso. Questa seconda parte de Il museo demuseificato si focalizzerà, invece, su quei discorsi di tipo propositivo, caratterizzati anch’essi, come i precedenti, da un acume critico sempre lucido e profondo.  Si tratta della serie di conferenze dei due gruppi di ricerca coordinati rispettivamente da Iain Chambers (Verso un museo post-coloniale)e da Silvana Carotenuto (Danze, donne e dimore dell’archivio del Mediterraneo) che propongono, dal versante dei post-colonial studies e dei cultural studies, nuove vision e mission per il museo e per l’archivio delle arti contemporanee.
La sequenza di relazioni curate Iain Chambers raccolte sotto il titolo Verso un museo post-coloniale  si inseriscono all’interno del research project MeLA (European Museums and Libraries in/of the age of Migrations). Progetto di ricerca quest’ultimo che mira a definire nuove strategie in vista della creazione di organizzazioni modello multi- ed inter-culturali,  che si occupino della conservazione, dell’esposizione e della trasmissione delle arti e dei saperi, con le modalità e le forme più adatte per far fronte alle urgenti esigenze che l’Unione Europea, implicitamente o esplicitamente, ha avanzato in seguito alle continue e massicce migrazioni di persone e di idee dalle quali è stata investita nel corso dell’ultimo trentennio.
Chambers presenta il progetto di ricerca Verso un museo post-coloniale chiarendone i presupposti teorici e gli scopi etico-politici che lo animano. Per lo studioso, “parlare del museo, criticarlo e ripensarlo, alla luce delle storie e delle culture che esso ha storicamente e strutturalmente escluso, negato e rimosso ci propone lo spazio emergente del museo postcoloniale (…), uno spazio extra-territoriale ed extra-nazionale, dove la logica dei musei è esposta alle correnti planetarie che possono mondeggiarla in modo tale da permetterci di accogliere delle domande non autorizzate da un senso unico o da una visione puramente autoreferenziale”. In quest’ottica il museo si trasforma in una rete di tracce mobili, attraverso la quale la memoria cultural-artistica transita come “un’interrogazione aperta, ancora da elaborare, dove ognuno si trova sulla soglia di una modernità ancora da narrare”.  Lo spazio del museo va inteso, dunque, come un flusso di contatti, frizioni e contaminazione che lo rendono un luogo di vitale importanza critica, “in un mondo in cui una giustizia storica e sociale, ancora da venire, ci investa dal futuro”.
All’introduzione di Chambers hanno fatto seguito le relazioni delle ricercatrici del Centro di Studi Postcoloniali de “L’Orientale”: Michaela Quadraro, Beatrice Ferrara, Alessandra De Angelis. Quest’ultima ha esaminato il caso dei “community museum” portandoci l’esempio del Disctrict Six Museum di Cape Town (Sudafrica). I “musei della comunità” sono delle piattaforme di compartecipazione, degli spazi critici dove si “pensa insieme il senso della cittadinanza e dell’azione politica, al di là di troppo semplici orientalismi e seduzioni etniche, dando voce a tutte le memorie individuali e comunitarie del passato”. Essi non sono solo aree di comunione, ma anche di contestazione e conflitto. Sono micro-società ai margini dello stato-nazione e delle guide turistiche, che cercano di sopravvivere usufruendo solo di fondi non governativi. Michaela Quadraro, invece, richiamandosi alle pratiche curatoriali di  curator  come Thelma Golden – direttrice dello Studio Museum ad Harlem, New York – ha sostenuto che le poetiche di artisti come Isaac Julien o Zineb Sedira, ci lanciano nuove sfide “per testare e riconfigurare le logiche museali e dar forma a cambiamenti culturali”.  Beatrice Ferrara, a sua volta, ci ha invitato a reinterpretare la tesi di James Clifford sul “museo come zona di contatto” nel proposito di prospettare un modello di fruizione artistica interattiva e rizomatica, dove il ruolo delle nuove tendenze musicali possa assumere una funzione centrale.

Zineb Sedira, Remnants of a scattered vessel, 2010
Zineb Sedira, Remnants of a scattered vessel, 2010

Nella giornata successiva all’intervento del Gruppo MeLA  è stata la volta della conferenza a cura di Silvana Carotenuto Danze, donne e dimore dell’archivio del Mediterraneo, nel corso della quale si è presentato, tra l’altro, il progetto di ricerca del Centro di Studi Postcoloniali de “L’Orientale” L’Archivio Digitale delle Arti del Mediterraneo coordinato dalla stessa Carotenuto.  La ricerca – illustrata dalla Carotenuto con la collaborazione delle ricercatrici Annalisa Piccirillo e Manuela Esposito – intende “studiare l’archivio nelle sue forme contemporanee , prefiggendosi il compito dell’archiviazione digitale di alcune opere artistiche prodotte e circolanti nell’area strategica del Mediterraneo, culla di civiltà e luogo odierno di nuovi contatti culturali ed economici”.  Vista l’evidente pertinenza post-coloniale del progetto, al centro delle sue analisi e delle sue proposte d’archiviazione si pongono le interrelazioni che intercorrono tra i “tragitti esperienziali dei migranti” e le potenzialità offerte dai media digitali che ne consentono e ne amplificano la portata e l’efficacia espressiva,  interattiva e trasmissiva.
Secondo Silvana Carotenuto l’archivio digitale post-coloniale può indicarci “delle direttive di riflessione teorica e di prospettive pratiche all’interno delle quali l’archivio rivede la sua probabile non-neutralità, controfirmando, ad esempio, le storie del soggetto pre-determinato ‘orientale’, l’altro, l’altra,  il diverso, il marginale, colui o colei che è stato tenuto fuori dalle pratiche di archiviazione”.  Altresì Carotenuto, sullo sfondo delle preziosi riflessioni di Arjun Appadurai sull’archivio ‘futuro’ e sul concetto di “memoria collettiva” (Appadurai, Archive and Aspiration), ritiene che l’archivio digitale grazie alle sue caratteristiche non-gerarchiche e interattive, apre al futuro delle generazioni ‘altre’, diasporiche, ibride e transnazionali, prodotte dalla globalizzazione.
Occorre pertanto aspirare “ad un ‘archivio vivente’,  frutto dell’iper-valore della memoria per il migrante, l’esiliato, l’altro tra altri, che quotidianamente ne rivendica il valore; in quanto la lega intimamente alla perdita (loss) vissuta nella migrazione, ed insieme la apre (…) creativamente alla produzione (…) di una sorta di ‘comunità immaginaria’ che interattiva geografie virtuali, limiti, affetti e affinità, tutte da con-dividere e da con-vivere”.

Domenico Esposito

D’ARS year 52/nr 209/spring 2012

 

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