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La summa estetica di Carolyn Christov-Bakargiev

dOCUMENTA(13) is for me more than and not exactly, an exhibition -it is a state of mind. 

(c.c-b.)

Rientrata dalla mia “terza” Documenta, mi sono trovata a riflettere sul tipo di manifestazione, sul luogo, sulla modalità. Ho riflettuto soprattutto sui curatori: innegabile il loro potere, il loro imprinting, la loro matrice culturale e politica, che poco ha a che vedere con i curatori che si sono succeduti nelle più recenti edizioni delle Biennali nostrane, dove si aveva la ferma sensazione (dopo Harald Szemann) che i curatori della kermesse veneziana, di imprinting, non ne avessero granché. A Documenta invece i curatori prendono sempre una posizione, diciamo che hanno un senso, condivisibile o meno, danno un taglio, dicono qualcosa.

Ho visto la Documenta 11 del 2002, quella curata da Okwui Enwezor: politica, forte, terzomondista, contraddittoria, dove Enwezor definiva perversamente conservatore – l’assunto che l’arte dovrebbe porsi al di sopra della politica. Era un reportage dei conflitti, un’accusa all’occidente, una scossa al razzismo, al capitalismo e al potere economico, anche se con una modalità comunicativa molto “americana”.

Ho visitato in seguito (2007) la documenta 12 della famiglia Buergel/Noach, di stampo più “archeoantropologico”, dove mi era parso forte l’istinto di esporre da parte degli artisti le proprie origini, i propri miti e rituali per inventariarli, affermarli, confrontarli in una ideale e planetaria tavola rotonda, prima di affidare i risultati al museo etnografico e cominciare a lavorare su un terreno comune, in cui la diversità va comunque affermata e rispettata evitando che diventi conflitto.

Walid Road, Scratching on things I could disavow, 2007-ongoing
Walid Road, Scratching on things I could disavow, 2007-ongoing

Questa Documenta 13, della crisi, della catastrofe, come la definisce la curatrice, mi pare abbia assommato le due tendenze precedenti con uno stile e uno sguardo più ampio e sincretico: e lo ha fatto soprattutto a livello teorico. Sì, perché il saggio introduttivo di Carolyn Christov-Bakargiev è un densissimo scritto di quindici pagine nel quale pare faccia davvero il punto della situazione sulla cultura contemporanea: cultura a trecentosessanta gradi, si intende, dove non mancano riferimenti colti e puntuali a moltissimi dei pensatori che agganciano le loro menti sulle deboli funi del secolo in corso cercando di non smarrirsi, o assumendo quell’atteggiamento scettico e non dogmatico di ricerca continua e contingente. Ho ammirato questo saggio che ho riletto più volte perché sono convinta che sia lucido, razionale ed emotivo quanto basta, frutto di letture e ricerche, maledettamente coerente. Ma secondo me pecca proprio in quella precisione di incasellare ancora una volta tutto, di dare un rassicurante impatto tassonomico a pensieri e dimensioni inevitabilmente complesse, restando dunque agganciata,  non certo ad un pensiero passatista (chapeau alle sue citazioni, da Theodor W. Adorno a Giorgio Agamben, da Merleau-Ponty a Roland Barthes, da Judith Butler a Rudolf Arnheim, e molto altro) ma ad un certo modo astratto di interpretare il presente alla luce di un miglior passato e di un peggior futuro, senza entrare realmente in medias res, negli ingranaggi del processo ma osservandolo ancora una volta con gli occhi dello scienziato pre-quantistico, dal di fuori.

William Kentridge, Philip Miller, Catherine Meyburgh, Dada Masilo: The Refusal of Time, 2012
William Kentridge, Philip Miller, Catherine Meyburgh, Dada Masilo: The Refusal of Time, 2012

La curatrice sostiene che questa sia la Documenta che guarda al trauma, agli eventi del mondo che cambia e lo fa dichiarando che non importa se sia tutta arte o se non lo sia. Tutte le discipline del sapere sono state chiamate a far parte della rassegna: non possiamo che condividere questa visione sincretica (che collima tra l’altro perfettamente con la linea scelta anche per questa rivista). Antropocentrismo, ecologia, complessità, alterità, ascolto, decrescita, crisi globale, impegno, partecipazione, testimonianza, spostamento, sono tutti termini densi e presenti nella summa della curatrice, che propone una visione olistica e non logocentrica  che condivida le conoscenze di tutti gli abitanti del mondo (animati e inanimati, umani e non-umani).

Attia Kader, The repair from Occident to Extra-Occidental cultures, 2012
Attia Kader, The repair from Occident to Extra-Occidental cultures, 2012

Il gesto di ospitare movimenti di occupy e progetti di impegno sociale e politico come and and and dentro una manifestazione che aveva un budget astronomico f-inanziato da banche e industrie- può essere un segnale di coraggio ma anche una mossa strategica very politically correct (dentro un sistema e nello stesso tempo contro di esso?)

La presa di coscienza della società connessa attraverso social network e dispositivi tecnologici che ci permettono di essere ovunque, seppur mediati, fa assumere alla curatrice un atteggiamento critico e una proposta di riavvicinamento alle cose, lo spazio di relazione tra esseri e oggetti, dove l’opera artistica funga da oggetto transizionale che ci consenta di connetterci in un certo spazio e in certo tempo: non uno spazio e un tempo virtuale (lo spazio del “mi piace” di facebook) ma un qui ed ora interconnesso e mediato dall’opera stessa, che non crei un’assenza ma una presenza, un esserci relazionale tra persone, cose, animali e territori.

Occorre, secondo la curatrice, riproporre la validità dell’approccio fenomenologico, sottolineando, attraverso la visione di Maurice Merleau-Ponty, la “vittoria” del precetto sul concetto, dove la conoscenza passa principalmente attraverso il corpo. A dOCUMENTA(13), però, se ci si fosse affidati soltanto alla percezione corporea senza transitare dall’universo parecchio logocentrico delle numerose parti scritte, tutto questo senso non ci sarebbe arrivato nella sua completezza.

Vero è che tutte le possibili critiche che sono state mosse e che si possono muovere non intaccano il riconoscimento all’immane lavoro che la Christov-Bakargiev ha svolto con il suo staff, alle inevitabili mediazioni tra artisti, sponsor, istituzioni, ecc… ingranaggi che devono per forza comprendere compromessi e adattamenti.

Forse, come ben spiega Giulia Mengozzi nel report sulla sua esperienza a Kassel, il punto è questo: porsi o meno il problema dell’ineludibile unità tra vero atto artistico/culturale ed atto politico (specie in un contesto economico e sociale come il nostro) o rassegnarsi all’illustrazione e al decoro. 

Ne riparleremo tra cinque anni: chissà mai se si farà una Documenta totalmente virtuale sparsa per il pianeta?

Cristina Trivellin

D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012

 

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