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Marina Abramović. Il corpo e l’anima

Edoardo Pilutti

Con la tecnologia il tempo ci viene sottratto e ci deconcentriamo da ciò che conta veramente: la consapevolezza di noi stessi e la relazione con l’altro…

L’arte non serve a raggiungere il benessere, ma a disturbare e lenire e poi soprattutto a capire; deve essere sociale e politica. Nei miei lavori non mi limito a riflettere la società così com’è: spazzatura, disperazione. Io voglio dire anche qualcosa di positivo (Marina Abramović da un’intervista pubblicata su Arte Contemporanea, n° 22/marzo–aprile 2010). Il pensiero di Abramović è dunque per una riconsiderazione critica del progresso tecnico-industriale, a favore della ricerca di un’autentica comunicazione nei rapporti umani, sociali e personali. Anche nella mostra che inaugura il 20 marzo presso la Galleria Lia Rumma di Milano, With Eyes closet I see Happiness (contemporanea all’altro evento The Abramović Method, realizzato al PAC di Milano), si evidenzia l’evoluzione della ricerca dell’artista orientata verso l’autoanalisi di dinamiche percettive, affettive ed emozionali, attraverso fasi di contemplazione estatica, alla luce di filosofie orientali. Il progetto di portare se stessa e il pubblico verso l’essenza costitutiva dell’essere umano, viene realizzato attraverso una performance introspettiva, 14 sculture riproducenti la sua stessa testa attraversata da cristalli di quarzo, e numerose grandi fotografie.
Nel percorso dell’artista vorrei ricordare due lavori poco considerati.

Nell’ultima Biennale di Venezia, fra varie opere di altri autori serbi, in un palazzo vicino a campo S. Angelo, vi era un video di Marina Abramović in cui la sua voce narrava il clima familiare della sua infanzia e adolescenza, mentre scorrevano immagini riprese in Montenegro, la terra d’origine della sua famiglia, dove una fabbrica abbandonata e deserta veniva trasformata in centro di produzione culturale da parte dell’artista stessa. Quella rievocazione della propria fanciullezza, con numerosi dettagli analitici fra cui il conflitto perenne fra un padre convinto stalinista e una madre fervente cattolica -senza volersi limitare a un’interpretazione semplicemente patografica[1]– illumina però sul senso di molte crude e conturbanti performance eseguite fra gli anni Settanta e Novanta, in cui Abramović si sottoponeva a serie prove di resistenza psichica e fisica (ricordiamo ancora il puzzo lasciato per mesi nel Padiglione Italia dalla montagna di ossa bovine che l’artista aveva raschiato col coltello nei giorni dell’inaugurazione della Biennale 1997).

Una spietata analisi della sessualità fondava invece l’insieme di performance dal titolo The Erotic Body, messe in atto al Teatro alle Tese dell’Arsenale per tre giorni e con orario ridotto durante la Biennale del 2007, e curate appunto da Marina Abramović: si trattava di una sequenza performativa composta da numerose scene svolgentesi contemporaneamente negli ampissimi spazi del Teatro, in cui alcuni artisti dell’Independent Performance Group, da lei creato, affrontavano il tema dell’amore. Si veniva accolti all’ingresso da una giovane donna rinchiusa all’interno di un parallelepipedo di plastica trasparente, con un’apertura che le permetteva di sporgere le labbra per baciare ed essere baciata dai visitatori: ciò dava un senso di alto struggimento, di una coartazione endogena ed esogena al tempo stesso che avrebbe limitato inesorabilmente la comunicazione affettiva. E all’interno, nella penombra, si proseguiva con scene di vario tipo che sostanzialmente richiamavano vari tipi di perversione sessuale o disturbi psicopatologici, giocati però con una leggerezza tale e una poesia così sottile da permettere al pubblico riflessioni nuove e intuizioni cognitive in linea con la rivoluzione culturale dell’antipsichiatria e della comprensione psicoanalitica d’avanguardia; si avvertiva il sintomo come l’annodamento fra l’originalità dell’essere umano e il fallimento della politica.
Dopo aver affondato lo sguardo nelle proprie e altrui miserie, oggi Abramović è in grado di proporre al pubblico un metodo per una profonda modificazione culturale e psichica.

 


[1] patografia è un  neologismo che indica il tentativo di interpretare le opere di un artista in base alle sue sofferenze esistenziali.

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