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Mario Schifano: un visionario dell’immagine

Schifano è stato un fiume in piena, un artista che ha prodotto per circa quattro lustri una quantità torrenziale di opere, rapidamente, violentemente, ingoiando e rimaterializzando immagini senza soluzione di continuità, succhiate dalla vita privata, dal medium televisione, dai propri paesaggi mentali, da viaggi fisici ed onirici.

Arte e vita per Schifano sono state intimamente intrecciate tra di loro, facendone un inviato speciale nella pittura come uomo e un inviato speciale nella realtà come pittore secondo la nota definizione del critico Achille Bonito Oliva, curatore della grande retrospettiva organizzata a Milano presso la Galleria Gruppo Credito Valtellinese e realizzata in collaborazione con la GNAM di Roma e l’Accademia di Brera, a dieci anni dalla sua scomparsa.

In mostra quadri che narrano i quarant’anni di attività di questo artista, tra i primi a sperimentare innesti tra pittura e musica, cinema, video, fotografia, con attenzione alla multimedialità, soprattutto verso il ciclo finale della sua produzione. Sì, perché Schifano era un artista figlio del suo tempo, come lui stesso dichiara.

E le opere esposte sono eloquenti: segnano il cammino evolutivo  di questo artista sempre al passo con la storia e la tecnologia disponibile a fini artistici, suggerendo una volontà di ricerca che va ben oltre la fase iniziale degli anni Sessanta che lo hanno reso famoso a livello mondiale. Non è un caso, allora, che il curatore abbia deciso di omettere le opere caratterizzate dalle scritte “Coca cola” ed “Esso” che rendono l’artista universalmente riconoscibile e che sono altrettanto oggetto di plagio e falsificazione. Difficile, in effetti, controllare la produzione di un artista tanto prolifico, ma interessante, invece, seguire la sua mutazione creativa che sembra essere scandita di dieci anni in dieci anni.

Mario Schifano, Senza titolo (fibre ottiche), 1997
Mario Schifano, Senza titolo (fibre ottiche), 1997

Siamo negli anni Sessanta. Mario Schifano ventenne è già nelle scuderie delle più note gallerie di arte contemporanea in entrambi i poli dell’asse culturale Roma-New York. Sono queste le città dell’avanguardia culturale a trecentosessanta gradi, dal cinema alla letteratura, all’arte; qui pulsa il sangue della dolce vita misto a quello della vita bohémienne dei giovani artisti come Mario. Nel 1962 Schifano ha uno studio a New York in Broadway street, frequenta Andy Warhol ed espone con Rauschenberg, Jones e gli altri del New Realism show. Sono questi gli anni dei suoi monocromi, che man mano si popolano dei primi segni, cifre, locuzioni, parole con valore didascalico, sintetico, ma soprattutto grafico perchè astrusi dal piano del significato. Schifano fa tabula rasa dell’Informale, che trionfa nelle gallerie da dieci anni, per ripensare la pittura in tutta la sua bidimensionalità, utilizza fogli di carta da pacco dipinti a smalto che si ingobbiscono sulla tela rivelandone, attraverso le increspature, il valore spaziale dello stesso supporto. Schifano ha interiorizzato la lezione di Fontana e Burri, ma non si ferma qui, i suoi monocromi sono il punto di partenza e non di arrivo. Continua la sua ricerca diversificando i piani di campiture di colore sulla tela e sovrappone in un secondo tempo perspex e plastica colorata tracciando paesaggi di segni, giustapposti tra di loro al fine di rivelare un’immagine mentale, un accenno, un’inquadratura parziale della realtà, mediata dalla visione pittorica. Schifano non guarda, ma isola particolari sulla tela, li ingrandisce in maniera macroscopica, li inquadra come un obiettivo della macchina fotografica, ne coglie il valore universale del dettaglio. Ben presto, questi segni diventano paesaggi anemici, perché sbiaditi su queste carte vissute, e perché già digeriti dagli strumenti tecnologici dei mezzi di comunicazione, fino a diventare dei veri e propri paesaggi tv. Siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, più precisamente nel Sessantotto. Tutta la cultura tradizionale viene messa in discussione e con essa  anche la pittura. Schifano non è indifferente alla contestazione, la vive, e la interiorizza  sprofondando in una crisi di identità che investe il proprio fare artistico di pittore e allora, vira verso la tecnologia. A partire dagli anni Settanta, infatti, Schifano produce opere carpendo “in diretta” immagini televisive che fotografa per poi stampare in negativo su carta sensibile, intervenendo in seguito con colori alla nitro. Visioni di un discorso senza sintassi, oppure serie di opere quasi identiche (penso alla serie di cinquanta tele dell’ora esatta con pochi secondi di differenza tra l’una  e l’altra) si alternano tra loro costruendo un bestiario di immagini direttamente estorte dal flusso del tubo catodico, oppure dalla miriade di fotografie scattate dall’artista con una foga quasi  maniacale. E’ un periodo cupo dal punto di vista personale dell’artista segnato dagli arresti per detenzione di stupefacenti e culminante in un tentativo di suicidio in seguito alla sua “prigionia” presso un ospedale psichiatrico. Schifano è profondamente segnato da questa esperienza tragica e una volta a casa, sembra trovare ossessiva consolazione nella compagnia della tv, sua delizia e dannazione. Poi finalmente arrivano gli anni Ottanta, arriva l’amore, la pittura ritrovata, che coincide con la sua grande svolta, la realizzazione del pittore in tutta la sua umanità; complici l’affermarsi della Transavanguardia e del Neoimpressionismo tedesco, ma principalmente segno della presa di coscienza da parte dell’artista della sua natura. Schifano è pittore, ed è un pittore estremamente rapido che si sente a suo agio con tele di dimensioni enormi, capace di compiere imprese titaniche. Famoso l’episodio di Chimera, una tela di quattro metri per dieci realizzata con il commento live di Achille Bonito Oliva a Firenze, accompagnata nella sua genesi dai commenti coloriti dei fiorentini, poi folgorati dal risultato finale. Arriva la metà degli anni Ottanta dicevo, Schifano ritrova tutta la sua Joie de vivre  nella potenza del colore spennellato vigorosamente su superfici importanti, nell’incrocio di segni che fanno esplodere tutta la vitalità del suo segno arzigogolato e balenante. Schifano scopre la gioia della paternità, dell’amore filiale con la nascita di Marco, dalla sua giovane e amata compagna Monica. Siamo nel 1985, da questo momento la sua pittura respira all’insegna della fecondità, si popola dell’immaginario infantile di Marco, si ricongiunge armoniosamente con la tematica delle proprie origini, la cromia, il deserto, le palme della Libia, dove era nato nel 1939. Non solo, negli anni Novanta la sua sensibilità verso i bambini si fa più acuta, l’artista coltiva il sogno di un’arte per tutti, senza risvolti psicologici inafferabili, senza sovrastrutture culturali elitarie, egli desidera un’arte facile da amare e comprendere, anche per i più piccoli. Continua in questo periodo il suo rapporto prolifico con la televisione, il cinema ed i mass media in generale, dai quali attinge a piene mani immagini rifondendole in una nuova sequenza visiva e comunicativa grazie alla pittura; sperimenta le immagini come parole e gli ideogrammi come immagini. Le fotografie, infine, in particolare le polaroid istantanee, diventano il suo taccuino su cui annotare nell’immediatezza immagini famigliari o del mondo contemporaneo. Schifano non smetterà mai di dipingere fino alla fine, quando nel 1998 si spegne in seguito ad un infarto. A chiudere la mostra, un’opera emblematica: il seduttore, un televisore con un cavo molto simile alla coda biforcuta di un diavoletto, a suggellare questa prolifica e diabolica coalizione di sempre, tra Mario e la tv.

Morena Ghilardi

D’ARS year 48/nr 196/winter 2008

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