La rivista nel 2022 è stata trasformata in archivio di contenuti.

Suggestioni di mimesi contemporanea

Platone indicava l’arte come imitazione di un’imitazione, mentre Aristotele la considerava non soltanto una mera copia della natura ma anche la materializzazione dell’idea. Il tema della mimesi è quindi un argomento antichissimo della filosofia e della storia dell’arte che il curatore Alessandro Rabottini propone in chiave contemporanea per Mimesi permanente. Una mostra su simulazione e realismo, allestita nello Spazio Underground della Galleria d’Arte Moderna di Torino.

Kelley Walker, Untitled, 2003
Kelley Walker, Untitled, 2003

Le origini e le ragioni dell’esposizione sono spiegate da Rabottini stesso nell’apertura del catalogo: ha portato con sè gli artisti che hanno nutrito la sua immaginazione, ha riflettuto sulla specificità dello spazio, chiuso, senza finestre, e sulla volontà di legare opere attuali alla collezione permanente della GAM. In particolare, Anni-Luce di Giulio Paolini, installato dal 2001 nel cortile interno, ricostruisce  una la sala di un museo, un luogo fittizio quindi, dove il pavimento è un soffitto aperto su stelle e pianeti. L’osservatore partecipa a questa costruita illusione e ne accetta il “patto di immedesimazione”. Questo è proprio l’argomento della mostra, quel “momento particolare in cui le immagini si rivelano come costruzioni evidenti e illusioni manifeste”. Fino a  che punto ci si può fidare di esse, solitamente date per vere, come nel caso del fotogiornalismo per esempio, ma spessissimo, soprattutto oggi, manipolate e mutate dal digitale? L’esposizione riflette inoltre sul cortocircuito dato dall’abbondanza esponenziale del materiale iconografico che conosce la società contemporanea, la sua facile disponibilità e l’immediatezza della manipolazione, praticamente a portata di tutti con la diffusione capillare delle nuove tecnologie e di internet.

Tredici artisti indagano il tema attraverso il loro personale linguaggio. Tutti sono nati tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, un periodo in cui il digitale era già una costante della vita quotidiana, pur conservando l’interesse per l’analogico nella pratica artistica e per il rapporto tra realismo e astrazione. Viene riproposto il paradosso di “rendere evidente la manipolazione e allo stesso tempo creare un sottile gioco tra realtà ed elaborazione”. La rassegna è stata oggetto di critiche da parte di alcune riviste specializzate per mancanza di originalità.

A me sembra che i lavori siano ben allineati all’argomento e trovo stimolanti i numerosi interrogativi sollevati senza l’illusoria pretesa di trovare risposte definitive. Ciò che mi meraviglia è che nelle diffuse considerazioni legate alla globalizzazione non si tenga conto delle diverse nazionalità degli artisti e del contesto in cui operano. Penso per esempio al contributo al catalogo di Sterling Ruby, dal titolo Prospettive americane, che offre un sentito spaccato degli Stati Uniti filtrato dalla sua sensibilità artistica. Non si può dimenticare che la proliferazione delle immagini e il facile accesso alla simulazione siano prerogative essenziali dei paesi più sviluppati del mondo con le dovute differenze.

L’esposizione sarebbe naturalmente stata più completa, se avessero partecipato alcuni artisti che restano un punto di riferimento incontestabile, come Donald Judd, Gerhard Richter, Barbara Kruger e Dara Birnbaum, giustamente citati nella riflessione teorica del curatore.

Il video della performance di Roman Ondàk, The Stray Man, introduce lo spettatore alla mostra. Un uomo è ripreso in strada mentre osserva la vetrina. E’ curioso di guardare e di capire cosa avviene all’interno: una rappresentazione del concetto di esposizione stessa, così come l’opera di Michael Riedel che riproduce perfettamente l’ingresso dell’Underground Project.

Mirabili le tele di William Daniels che partendo dalle fotografie di sue piccole sculture geometriche in alluminio, lastre accartocciate, dipinge ogni cambiamento di luce, ogni più piccola sfaccettatura di una miriade di riflessi. L’idea è fermare l’attimo nel passaggio da un’immagine all’altra, enfatizzato anche dalla transizione tra le diverse forme d’arte. Nel Senza Titolo di Giuseppe Gabellone, invece, lo stiacciato e il bugnato decorano un lavoro a parete fatto di tabacco, colla e polvere di allumino, tenuto insieme da viti. Un esempio di fragilità per una nuova forma instabile. Nel MDF(1) di  Frank Benson un pannello di fibra di legno è torto in modo impossibile suggerendo un movimento che è in realtà assente. Seth Price, invece, gioca con la conservazione dei beni di consumo. Non sappiamo se gli oggetti scelti e protetti dalla pellicola trasparente siano nuovi o già vissuti in una riflessione tra passato, presente e futuro. Sorge l’interrogativo di come sarà preservata la vasta memoria iconografica attuale e di come sarà percepita negli anni a venire.

Elad Lassry e Kelly Walker studiano l’articolazione delle immagini in altri contesti: il primo attinge al genere della natura morta, del paesaggio e del ritratto; il secondo estrapola il materiale da internet o dalla pubblicità, icone note al pubblico o rese tali attraverso pratiche formali riconosciute.

Pratchaya Phinthong e Carey Young indagano il linguaggio della giurisprudenza e della politica creando cortocircuiti logici e visivi, come i bambini messi in posa alla maniera dei capi di Stato durante le convention, o i lavori con i contratti amministrativi e aziendali inventati, in cui i significati di libertà, giustizia… hanno un’accezione esasperata.

La mostra si conclude con la già menzionata Sterling Ruby, Anna Barriball e Simon Denny. Ruby crea un dripping con lo smalto per le unghie sopra la fotografia di un transessuale: passaggio di forme, di tecniche e ora anche di genere sessuale. Barriball chiude nella pellicola trasparente televisori con lo schermo piatto LCD, ma dotati di  tubo catodico arrugginito, come a voler rivendere la storia dell’elettrodomestico televisivo. Denny presenta una camera scarsamente illuminata con finestre chiuse e un tappeto di foglie ritagliate a mano in stoffa e plexiglass. Un altro paesaggio ricostruito, in questo caso quasi “un monocromo scuro”, dove la visione è incerta e confusa.

 

Vera Agosti

D’ARS year 50/nr 203/september 2010

share

Related posts