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Come difenderci dall’immortalita’

Looking forward to a complete suppression of pain; nel 1994 Damien Hirst progetta una scatola in vetro e metallo all’interno della quale colloca quattro televisori, uno per ogni parete del parallelepipedo, che trasmettono spot di medicinali. I quattro schermi si guardano vicendevolmente, formando una sorta di cerchio chiuso, all’interno del quale le immagini si sovrappongono creando un mantra visivo, un flusso colorato d’autoconvincimento terapeutico.

Gli anni che ci separano dall’ultimo conflitto mondiale ovattano la percezione fisica della morte. Eliminata dalle strade, dalle piazze (tranne in rari casi), dalle manifestazioni, dalle nostre case. L’invecchiamento si porta fuori dalle mura domestiche per paura di contagio. Lo scontro violento viene relegato ad un sentimento esotico (se il termine possiede ancora un qualche significato), filtrato dai canali come youtube o da qualche social network. La scomparsa graduale della forma fisica del dolore e delle sue estreme conseguenze, si trasforma in una lotta alla sopravvivenza forzata. Hirst riflette su uno degli ultimi tabù dell’occidente mostrandone possibili antidoti: spot e pillole (surrogati di felicità), in una continua alterazione dei nostri sensi. Questo comporta la costruzione di un sistema di protezione che allontana il corpo della morte dall’immaginario visivo. Il nostro desiderio di interagire, anche se solo indirettamente, con essa può essere soddisfatto dall’immenso fast food della rete: un contatto filtrato (schermato) e feticistico. Ma un’altra diretta conseguenza, dell’occultamento della M. e della conseguente alterazione chimica del nostro corpo (abuso di farmaci e simili), è l’intervento sulle capacità intellettive e funzionali del corpo stesso: trasformazione del soggetto in uomo macchina ed elusione del ciclo biologico nascita/morte. Pensiamo ad esempio agli ormai prossimi Google glass.(…)

Erjon Nazeraj (fotografia di Valentina Scaletti), Autoritratto, 2012
Erjon Nazeraj (fotografia di Valentina Scaletti), Autoritratto, 2013

It was in 1994 when Damien Hirst constructed Looking forward to a complete suppression of pain, a glass box, in which he placed four TVs (one for every side of the quadrilateral) showing adverts for pharmaceuticals. The four screens stare at each other, almost forming a closed circle in the middle of which the juxtaposing images merge together creating a visual mantra, a multi-coloured stream of therapeutic self-persuasion.
The years that separate our society from the last world war have distorted our perception of physical pain. It has been removed from the streets, from the squares (apart from rare exceptions), from the demonstrations and from our homes. The process of ageing is now expelled from our domestic lives with fear that it might infect us. Wars and conflicts are diluted into an exotic emotion (if such a term still holds any significance), which is filtered by channels such as YouTube or some other social network. The steady disappearance of physical pain, and its extreme consequences, transforms into a fight for forced survival. Hirst reflects on one of the last western taboos, exposing possible antidotes: adverts and pills (surrogates for happiness) that continually alter our senses. This results in the construction of a protective system, which creates a distance between Death and visual imagery. Our desire to interact with it, even indirectly, can be achieved through the vast fast food of the World Wide Web. This grants a filtered and fetishized contact. However, another direct consequence of the concealment of D is the subsequent chemical alteration of our body (through overconsumption of pharmaceuticals) and the intervention on our mental and physical capabilities of the body itself. It gives way to a transformation into a machine-man and the delusion of biological cycle of birth and death. Let’s take the new Google Glass as an example.

Andrea Tinterri
D’ARS year 53/nr 215/autumn 2013 (abstract dell’articolo)

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