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Dall’attivismo al clicktivism

Qual è la distanza tra le grandi proteste e un click? Durante le rivolte di questa primavera che hanno visto protagoniste le popolazioni del Maghreb ci si imbatteva spesso in discussioni o notizie che mettevano in risalto il ruolo fondamentale svolto dai social network nell’organizzazione delle proteste. Nel libro @ Is For Activism: Dissent, Resistance And Rebellion In A Digital Culture,  pubblicato questa estate per Pluto press, Joss Hands analizza questo fenomeno. Già nell’aprile del 2009, durante le manifestazioni contro le elezioni truccate in Moldavia, Twitter era stato individuato come lo strumento attraverso il quale migliaia di persone si erano date appuntamento davanti al parlamento per protestare. Ma la vera consacrazione di questo social network come strumento di resistenza è arrivata il 15 Giugno del 2009 con le proteste in Iran. Nei giorni in cui il movimento verde iraniano scendeva nelle strade e nelle piazze di Teheran, abbiamo assistito ad un particolare interesse mediatico sull’utilizzo di Twitter all’interno di quelle proteste. L’immagine errata che ne derivava era di un ruolo chiave di questa piattaforma negli aspetti organizzativi e divulgativi delle manifestazioni.

Les Liens Ivisible, Tweet4action
Les Liens Ivisible, Tweet4action

Se questo può essere in parte vero per l’aspetto divulgativo, non è così per quello organizzativo. Twitter è una piattaforma censurata in Iran, e la proliferazione di account in quei giorni era in parte dovuta a residenti all’estero che attraverso email di amici o parenti erano in costante aggiornamento. Questo aumento inoltre era necessario per creare una copertura per quelle persone che in Iran erano riuscite ad aggirare la censura.  Attraverso Twitter si è riusciti a tenere in costante informazione la comunità iraniana all’estero attirando l’interesse mediatico occidentale.  Ben presto però l’entusiasmo, legato anche alla novità di uno strumento in grado di aggregare migliaia di persone, si è dovuto confrontare con le azioni di forte repressione da parte degli stati, che hanno soffocato nel sangue le rivolte. Per cui l’idea di un grande cambiamento globale ha lasciato lo spazio a riflessioni più profonde sul senso della partecipazione e dell’azione politica, ridimensionando il ruolo dei social network.  L’autore non presenta solamente gli effetti dell’utilizzo di questi strumenti durante le rivolte in Iran o durante la campagna elettorale di Obama, ma approfondisce l’analisi sui social network come dispositivi normalizzanti fino ad arrivare allo studio dei protocolli internet. Hands è consapevole dell’illusoria sensazione che gli utenti provano quando attraverso un click aderiscono a cause che si propongono di cambiare il mondo. Un tipo di pratica chiamata clicktivism (attivismo attraverso un click) da Malcolm Gladwell  o slacktivism (l’attivismo dei pigri) da Evgeny Morozov che è collegata al concetto di interpassività elaborato da Slavoj Zizek. Le diverse cause infatti sembrano essere una sorta di arredamento, con cui ogni utente riempie il proprio account come più gli aggrada. I social network sono diventati una sorta di supermercato delle identità, in cui l’adesione alle cause ci dà la sensazione di essere importanti con uno forzo quasi pari a zero e,  inevitabilmente, con un impatto nel sociale nullo. Forse, però, la cosa più preoccupante è che questo tipo di pratiche hanno portato ad un allontanamento da un effettivo supporto. Si potrebbe pensare che quel gesto per molti non sia l’inizio del sostegno reale alla risoluzione di questioni sociali, ma costituisca la fine dell’impegno. La convinzione più diffusa è quella che un alto livello di visibilità possa essere determinante nella risoluzione di una problematica, per questo motivo si chiede spesso di aderire, aprire cause su diversi social network e diffondere quanto più possibile. Questo può funzionare in alcuni casi prevalentemente locali, ma nel caso di problemi globali l’utilizzo di questi strumenti si rivela controproducente, perché non c’è un’effettiva traduzione della consapevolezza in azione. A questo proposito è interessante l’operazione artistica e dissacratoria Tweet4Action dei Les Liens Invisible, uno strumento indispensabile per l’attivismo da poltrona. Sulla scia dell’entusiasmo creato dalle Twitter Revolutions, il duo invisibile propone una potente combinazione tra Twitter, augmented reality e allucinazione collettiva data dalla ipertrofia del flusso di informazioni. Attraverso il proprio account Twitter è possibile accedere all’applicazione, definire un luogo in cui si svolgerà la protesta e  diffondere la notizia sul social network. Nel luogo prestabilito migliaia di avatar virtuali, visualizzabili tramite il proprio smartphone, daranno vita alla manifestazione. Un critica all’allontanamento dalla partecipazione attiva che questi strumenti portano con se’ e che spinge spesso gli utenti a cinguettare la propria rivolta. Questa analisi però si distanzia dalle soluzioni ottimiste proposte da Hands nel suo libro, il quale identifica nella trasparenza le modalità attraverso le quali sarebbe possibile creare aree di resistenza e cambiamento in rete. Tuttavia ciò che rimane irrisolto è il rapporto tra le modalità di comunicazione e la vita quotidiana. Come questi strumenti influenzano il nostro modo di agire? L’attivismo al suo interno può considerarsi immune alle dinamiche di dominio e potere? a queste domande sembra rispondere in senso pessimista il sito Activ@rmy pubblicato quest’estate da un gruppo anonimo interno a quelli che possono definirsi amaramente i professionisti dell’attivismo. Activ@rmy è presentata ironicamente come un agenzia interinale che permette il reclutamento di agenti politici attivi con le stesse modalità con cui le aziende scelgono le proprie risorse umane. Una critica sarcastica che però mette in evidenza come molto spesso l’insieme delle relazioni all’interno dei gruppi abbia subìto l’influenza della rete e concepisca le persone come collegamenti intercambiabili e sostituibili. Il progetto mostra una tessitura di indesiderabili risonanze dalle quali sembra emergere una visione fortemente negativa. Tuttavia come gli stessi autori ricordano citando Foucault: “Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, che non è esattamente la stessa cosa. Se tutto è pericoloso, allora abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico”[1].

Loretta Borrelli

D’ARS year 51/nr 208/winter 2011

 

[1] M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, postfazione 2 a Hubert Dreyfus e Paul Rabinow, La ricerca di Micheal Faucault, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, p. 259

 

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