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Elementi per una nuova genealogia

L’istinto alla vita ha una giustificazione biologica che si basa sulla necessità di preservare e perpetuare le specie e si manifesta nel nostro mondo attraverso l’evoluzione. Questa tensione al miglioramento accomuna tutti gli esseri viventi, ma si manifesta nell’uomo, ancor più che attraverso la lenta trasformazione fisica che ha determinato la sua attuale conformazione, anche attraverso la cultura, la dimensione simbolica e quella tecnologica.
Tuttavia è interessante notare come attraverso la sua storia l’essere umano non si sia limitato a considerare la propria specie e le altre a lui vicine e già esistenti come le uniche possibili e utili alla sua sopravivenza. Spingendo la propria immaginazione e rincorrendo un impulso inscindibile dal suo essere animale pensante, ha delineato e trovato in ogni civiltà un proprio creatore, una schiera di dei e dee da cui far discendere la propria genia. Molto spesso si è ribellato alla divinità creatrice interpretando anche nel suo rapporto con il divino la lotta generazionale per l’affermazione della propria identità; la tecnologia, l’arte e la scienza sono stati spesso i suoi strumenti di affermazione e indipendenza. Il mito di Prometeo, che porta lo strumento del fuoco agli uomini per liberarli da tante costrizioni fisiche, il mito della torre di Babele, sfida basata sulla capacità di costruire, quello di Aracne, di Icaro e via dicendo, sono tutte parabole che l’umanità ha lasciato a testimonianza del suo sentimento di tensione amorosa e allo stesso tempo di paura per l’evoluzione della tecnologia. L’uomo, grazie alla tecnologia, sente di poter sfidare il proprio creatore, vuole il suo posto tra gli dei come dio della scienza e della tecnica (avrà pensato a questo Diego Velásquez quando nel suo dipinto Apollo nella fucina di Vulcano, del 1631, ritrae il dio della tecnologia con l’aspetto di un operaio, di un uomo, rispetto all’alone di divinità che riserva invece ad Apollo?). In questo ambito si manifesta un altro importante e ambizioso impulso che caratterizza solo l’essere umano: la grande presunzione agli occhi degli dei di voler create ex nihilo una nuova specie vivente. Anche l’uomo vuole “dare vita”, ma non attraverso Gla procreazione biologica (dono di Dio) bensì attraverso le sue capacità specifiche che si manifestano nelle invenzioni. Dare vita ai personaggi di un romanzo o dare sfogo alla propria immaginazione inventando sulla tela o imprimendo nel marmo forme di vita inesistenti. Ma non basta immaginare, c’è bisogno di concretizzare qualcosa che dia l’impressione della vita. La risposta viene dalle invenzioni tecnologiche, in particolare dai robot, macchine alle quali la scintilla della vita viene data dall’uomo per poter compiere autonomamente ciò per cui sono state create, per poter lavorare al posto dell’uomo e che dell’uomo siano suddite devote. La parola robot, introdotta nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Čapek nel suo dramma I robot universali di Rossum, non a caso significa “schiavo”.

Il sogno di fabbricare un essere vivente che riconosca nell’uomo il proprio creatore e signore è rintracciabile già nella mitologia ebraica con il personaggio biblico del Golem, essere che l’uomo plasma dall’argilla (come l’uomo è plasmato dal fango da Dio) e rendere vivo e asservito al proprio creatore umano attraverso una serie di formule magiche. Questo mito, ripreso dal regista tedesco Paul Wegener nel celebre film Der Golem del 1915, che a sua volta ha ispirato il personaggio di Frankenstein e tutto un filone cinematografico, letterario e fumettistico fantascientifico, pone accanto al fascino suscitato da questa operazione semidivina il monito per la pericolosa possibilità di perdere il controllo sulle azioni dei propri creati. Se nel film L’uomo meccanico (André Deed, 1921) il primo automa mai comparso su pellicola è cattivo a causa dell’intervento umano, lo spettro della ribellione che ogni creatura pensante può agire contro il suo creatore e l’uomo in generale è talmente ricorrente da spingere il più autorevole scrittore di romanzi di fantascienza, Isaac Asimov, a redigere le Tre leggi della robotica, alle quali rispondono la maggior parte dei robot dei suoi romanzi e che sono state riprese o parafrasate da molti altri scrittori di fantascienza.

Spostandoci dal versante del mito e dell’immaginazione a quello dell’effettiva creazione di “macchine autonome”, possiamo ricordare gli studi di Leonardo Da Vinci, che spesso costruiva macchine ispirate all’anatomia e alla struttura degli esseri viventi e che pare abbia progettato un robot meccanico antropomorfo già nel 1495. Fanno parte di un’ipotetica “archeologia della robotica” anche tutte quelle invenzioni meccaniche pensate per gli effetti speciali nei teatri di epoca greco-romana, le macchine a molla come gli orologi, i carillon e gli automi di Jacques Vaucanson (1709 – 1782), tra cui un’anatra meccanica (Canard Digérateur, 1739) in grado di beccare semi, bere e muoversi in modo molto realistico. Inoltre in questa invenzione si scopre un primo tentativo di riproduzione degli organi interni di un animale.

Il primo robot riconosciuto dalla storia dell’arte discende dal lavoro di collaborazione tra arte e ingegneria, ripreso in epoca contemporanea sulla scia della lezione vinciana dall’artista coreano Nam June Paik. In questo caso alla meccanica si aggiunge la scintilla dell’energia elettrica e la funzione del comando a distanza dell’opera creata. Robot K-425, robot vagamente antropomorfo dai movimenti volutamente goffi, è stato definito dal critico Henry Martin “il ritratto dell’anima del nuovo uomo elettronico”, e rappresenta in qualche modo l’alter ego positivo, umanizzato e divertente dei robot industriali o fantascientifici che troppo spesso nell’immaginario comune si configurano come minacce per l’uomo (pensiamo a film come Metropolis di Lang del 1927 o Tempi Moderni di Chaplin del 1936, in cui le macchine schiavizzano l’uomo invece di migliorare la sua vita). Robot K-456 (1964), come molte altre opere di Nam June Paik, rappresenta la volontà di affermare un uso positivo delle nuove tecnologie sottraendo il monopolio della ricerca scientifica e tecnologica al sistema produttivo economico.

Jacques Vaucanson, Canard Digérateur, 1739
Jacques Vaucanson, Canard Digérateur, 1739

Su un altro fronte la robotica e la cibernetica si impegnano nell’integrazione tra corpo umano e strumenti tecnologici, con esperimenti e risultati eccellenti soprattutto in campo medico e che hanno un riscontro sul piano letterario nella fantascienza prodotta dal movimento cyberpunk, nella cultura del postumanismo e nell’arte elettronica che vede in Stelarc uno degli esponenti più estremi. Questo artista ha infatti dichiarato obsoleto il corpo umano, inadatto cioè alla grande quantità di informazioni create dalla cultura contemporanea, come a sottolineare che i memi (i prodotti della cultura umana) di cui parla il biologo Richard Dawkins[1] hanno sviluppato un sistema di esistenza e diffusione esterno al corpo talmente evoluto da rendere l’apparato strutturale biologico dell’essere umano inadatto o troppo poco evoluto per la loro gestione. Per questo Stelarc predica e pratica attraverso le sue performance artistiche la nascita del cybercorpo, costituito di carne e tecnologia.

Al di là delle paure e degli entusiasmi derivanti dalla prospettiva di creare macchine autonome che nella più alta delle ambizioni possano avere anche una propria coscienza e capacità di raziocinio, l’evoluzione nel campo della ricerca scientifica riduce sempre di più le distanze con quella serie di ipotesi e intuizioni fantascientifiche prodotte dalla cultura umana. Hans Moravec, chiedendosi quale tipo di umanità caratterizzerà il nostro prossimo futuro, arriva ad affermare in merito ai progressi delle macchine e dei robot che “questi schiavi perfetti continueranno ad evolversi e non resteranno a lungo senz’anima”[2] accordandosi con Giuseppe O. Longo, che vede negli esseri umani lo strumento attraverso il quale le macchine riescono ad evolversi e a migliorare la propria specie attualmente in una fase molto preistorica della loro evoluzione[3]. Anche in questo caso arriva un saggio di fantascienza, uno dei primi, all’interno del romanzo satirico Erewhon (1872), ad anticipare le ipotesi di questi teorici e artisti contemporanei. Il dibattito innescato in una parte del romanzo, “Il libro delle macchine”, si basa sulla constatazione secondo la quale “non si esclude a priori che dalle macchine attualmente esistenti discenderanno in avvenire macchine coscienti”, e solleva questioni quanto mai interessanti ponendo a confronto due tesi discordanti: quella secondo la quale l’evoluzione delle macchine avrà come risultato la nascita di una nuova razza che soppianterà l’umanità nel suo ruolo di specie dominante, e quella secondo la quale bisogna considerare le macchine come parte della natura fisica dell’uomo, membra extracorporali costituenti “il sistema di sviluppo attraverso il quale l’organismo umano si sta perfezionando”[4].

D’altra parte l’interesse che nell’uomo suscita la possibilità di dare la “vita” o, se vogliamo, una piena autonomia ad una propria creatura, sembra inscindibile dalla sua storia evolutiva e sembra voler rispondere all’impulso di sopravvivenza e perpetuazione della specie umana, se non anche alla sua aspirazione all’immortalità[5].

Martina Coletti

D’ARS year 48/nr 195/autumn 2008 

 


[1] Dawkins Richard, Il gene egoista, Milano, Mondadori, 1994.

[2] Hans Moravec, “Il robot universale”, in Pier Luigi Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Bologna, Baskerville, 1994.

[3] Giuseppe O. Longo, Il simbionte, prove di umanità futura, Roma, Meltemi 2003.

[4] Samuel Butler, Erewhon, Milano, Adelphi, 1993.

[5] Riccardo Notte, You, robot. Antropologia della vita artificiale, Firenze, Vallecchi, 2005.

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