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Fashion Bowie

Nell’anniversario di una esibizione entrata nella storia del costume e della cultura, un’analisi sulle affinità fra l’iconicità di David Bowie e la moda nei suoi processi creativi. Qualcosa di più profondo dei look e delle “maschere” attraversate.

Il 6 luglio 1972 – 45 anni fa – il programma della BBC  Top of the pops manda in onda un’esibizione che segna l’immaginario di una e più generazioni: David Bowie canta Starman con gli Spiders from Mars e qualcosa nella cultura visiva e in particolare nella moda cambia per sempre.

Si è discusso a lungo sull’influenza culturale di Bowie, e ovviamente anche dei suoi lasciti musicali,  certamente importanti (questo 2017 segna anche il quarantennale di due album seminali come Low e Heroes), ma talmente legati all’evoluzione di una ricerca così personale da rendere molto difficili le filiazioni. Ci sono stati più imitatori del tono baritonale della voce che eredi, sui quali si abbatteva già nel 1980 l’ironia del brano Teenage wildlife[1] (e molti New Romantics finsero di non capire il riferimento).

David Bowie, 1983, Serious Moonlight tour
David Bowie, 1983, Serious Moonlight tour

Per l’immaginario visivo degli ultimi decenni, e soprattutto per la moda, il discorso è molto diverso.
Non si tratta tanto delle cicliche ispirazioni glam rock dei vari creatori (da Jean Paul Gaultier ad Alessandro Michele), ma di qualcosa di più profondo, una connessione ontologica che si manifesta con la creazione di narrazioni e codici estetici a ripetizione, con una regolarità così tipica della moda.
Fin dai primissimi album, ogni uscita o quasi si distingueva per la costruzione di un’identità musicale che partiva dalla definizione di un diverso soggetto estetico. Al di là delle banalità sul camaleontismo (il camaleonte per altro è un animale che si mimetizza all’ambiente circostante più che risaltare su di esso) il meccanismo di “appropriazione, imitazione, affinamento e distruzione” con il quale Bowie ha scandito le tappe del suo percorso musicale ed estetico, ha molto in comune con il processo creativo alla base del design di moda.

Copertine Vogue UK e Vogue Paris – ph. Nick Knight
Copertine Vogue UK e Vogue Paris – ph. Nick Knight

In un saggio del filosofo Simon Critchley (Bowie, Edizioni Il Mulino) si evidenzia come questa sequenza possa corrispondere al modello artistico di arte distruttiva elaborata da Gustav Metzger. In  parte Critchley sembra suggerire che anche per Bowie ci fosse in ciò un intento di critica sociale, ma a prescindere da questo la creazione/distruzione degli stili è l’essenza stessa della moda.
L’appropriazione degli input ispirativi (i più eterogenei), l’imitazione/riproduzione dell’input nel progetto di design, l’affinamento (nell’aggiunta di un plus di originalità e nei dettagli connotativi) e, infine, la distruzione che avviene attraverso la sostituzione con una “nuova” tendenza (collezione), sono esattamente i passaggi necessari per concepire ogni singola collezione di abiti.

E sono gli stessi passaggi che hanno segnato le uscite discografiche e le manifestazioni del Bowie personaggio pubblico: il dandy, l’alieno androgino, l’esteta weimariano, il pirata rock ’n roll, la maschera kabuki e via di seguito.

È un format creativo, non semplicemente una lunga serie di identità differenti, tanto meno di declinazioni stilistiche interessanti. L’abito fa il monaco, in questo caso, o perlomeno ne fornisce una rappresentazione convincente. E per quanto puramente rappresentative e inautentiche (o forse proprio per quello) queste identità ci fanno credere alla possibilità, per chiunque, di reinventarsi all’infinito e, magari, scoprirsi affascinati da qualcosa di diverso (Loving the Alien).
It’s Fashion, baby.

David Bowie, Earthling (BMG, 1997) – Coat by Alexander McQueen
David Bowie, Earthling (BMG, 1997) – Coat by Alexander McQueen

L’affinità di Bowie con la moda è anche nella rivendicazione convinta di una certa artificiosità (o “inautenticità”, come spesso rimproverato dalla critica musicale più moraleggiante), ed è l’artificiosità che consente di superare la realtà con il glamour, la musica o l’illusione cinematografica/televisiva come preconizzato da Andy Warhol alla fine degli anni ’60: una realtà di illusioni e suggestioni estetiche che fanno della creazione artistica un progetto consapevolmente artificiale ma non falso. Nel design di moda i concept ispirativi che ne sono alla base non sono una rappresentazione di autenticità in senso pasoliniano, ma sono originali e “veri” nella propria realtà che si alimenta di illusioni.

C’è quindi un denominatore comune fra il percorso di David Bowie e quello di molti fashion designer e un’eredità culturale molto spesso dichiarata, più che fra i musicisti – come per Hedi Slimane – che si traduce in quel concetto abbastanza sfuggente identificabile come“stile”, o meglio, “uno stile negli stili”, definibile solo fino a un certo punto, perché, del resto They [I] can’t give everything away.

Claudia Vanti

 

[1] A broken nosed mogul are you / One of the new wave boys / Same old thing in brand new drag / Comes Sleeping in to view, oh-ooh / As uglyas a teenage millionaire / Pretending it’s a whizz kid world / You’ll take me aside, and say / “Well, David, whats hall I do? They wait for me in the hallway” / I’llsay “Don’task me, I don’t know any hallways” / Buttheymove in numbers and they’ve got me in a corner I feel like a group of one, no-no / Theycan’t do this to me /I’m not some piece of teenage wildlife

(Sei un mogul dal naso rotto / Uno dei ragazzi della new wave / La stessa vecchia roba travestita di nuovo / Che viene avanti baldanzosa, oh – ooh / Brutto quanto un ragazzino milionario / Che fa finta che sia un mondo di bambini prodigio / Mi prenderai da parte e dirai / “Beh, David, cosa dovrei fare? Mi attendono all’entrata” / Io dirò “Non chiedere a me, non conosco entrate” / Ma si muovono in massa e mi stringono in un angolo / Sento di andare controcorrente, no-no / Non possono farmi questo / Non faccio parte della vita selvaggia degli adolescenti)

 

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