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Festival del Film di Roma: Tokyo Fiancée

Per la sezione Alice nella città (in cui è stato premiato Trash) del Festival Internazionale del Film di Roma, ho visto Tokyo fiancée di Stefan Liberski, trasposizione cinematografica di Ni d’Ève ni d’Adam di Amélie Nothomb, un romanzo autobiografico che celebra l’amore per il Giappone e indaga il delicato momento del passaggio dall’ideale al reale, dai sogni di bambina alle necessità di adulta. Perfetta per un teen movie, la trama rimane piatta, i personaggi non sono approfonditi e la regia si limita alla sola trasposizione in immagini scivolando nei cliché e nel citazionismo. I momenti chiave del romanzo fluttuano senza approdare a nessuna sequenza significativa, così che i momenti di confronto con la società nipponica e lo scontro dell’ideale con il reale viaggiano nell’aria come l’aereo che riporterà a casa Amélie.

A vent’anni, in piena crisi identitaria, Amélie ritorna in Giappone per ritrovare quello che aveva amato fino a cinque anni e quello che ritiene il suo mondo ideale; il ragazzo giapponese a cui offre ripetizioni di lingua francese diventa il concretizzarsi del suo sogno: non solo è nel Paese in cui voleva essere, ma ha anche un lavoro, un ragazzo e degli amici giapponesi che la fanno sentire parte di quel mondo. Raggiunto l’idillio, le cose iniziano a non andare più esattamente come spera Amélie, che intravede delle piccole crepe in quello che sta vivendo. La situazione si incrina; il viaggio in solitudine sul monte Fuji è l’epifania, una metafora all’ennesima potenza che le fanno capire chi è e cosa vuole: perdersi per ritrovarsi è il significato di questa sequenza (e di quella nella folla di Tokyo) ed è la forza del soggetto, abusato certo, ma mai demodé.

Il tema della costruzione della propria identità è cruciale per tutti ed è spesso tragico per gli adolescenti che devono arrivare ad uno scontro diretto con la realtà tanto diversa da quella ideale. L’espediente dell’incontro tra due culture diverse,  francese/occidentale VS giapponese/orientale, è un mezzo di analisi ottimo, che regala le scene più divertenti e riuscite del film. Felice all’idea di trascorrere una cena organizzata dal fidanzato assieme ai suoi amici, Amélie scopre che per i giapponesi la donna a tavola deve essere brava a intrattenere i commensali: tutti mangiano meno che lei, costretta a descivere usi e costumi francesi.

Oltre ad essere il nome dell’autrice e protagonista, Amélie ricorda l’Amélie interpretata da Audry Tatou in Le fabuleux monde d’Amélie Poluaine (2002). A partire dalla musica, che gioca con la musicalità del carillon, molti sono gli elementi simili: la composizione del quadro, la saturazione della fotografia, gli espedienti cinematografici per rappresnetare pensieri e immaginazione della protagonista. E ne ricorda anche i difetti, come l’eccessivo dilungarsi su alcuni elementi o la non compiutezza della trama. Con un po’ di retorica dico che la trasposizione di Liberski non rende merito al romanzo della Nothomb.

Elena Cappelletti

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