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“La cultura e’ l’apprendimento del dimenticare”. La poetica di Vincenzo Agnetti

“Quello che ho fatto, pensato e ascoltato l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico”

V. Agnetti[1]

Agnetti a Il luogo di Gauss, Milano Fotografia di Ugo Mulas, Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti, Milano
Agnetti a Il luogo di Gauss, Milano
Fotografia di Ugo Mulas, Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti, Milano

È del 1969 la prima versione di Libro dimenticato a memoria, forse una delle opere più conosciute e paradigmatiche di Vincenzo Agnetti (1926-1981). Il grande volume (70 x 50 cm) è corredato da eleganti nastri segna pagina e da una garbata copertina di tela che ricorda uno di quei vecchi diari di bordo, dove il capitano ogni giorno annotava scrupolosamente la rotta, ma anche le impressioni, le suggestioni e i pensieri di un viaggio periglioso e affascinante. Le pagine di Agnetti, invece, sono completamente bianche, o meglio, lo spazio abituale della scrittura è stato rimosso con un’implacabile fustellatura che ha ridotto i fogli a cornice di un vuoto assoluto e perentorio. Eppure, è proprio in quel vuoto che sta il senso del messaggio: non è censura, ma profondità infinita; non è assenza ma eloquente pensiero, luogo ideale, estensione dove tutto è possibile perché immaginabile e… dimenticabile. Un ossimoro, “dimenticare a memoria”, che Agnetti accetta come verità, nonostante la contraddizione, perché la vita stessa non è sempre una sequenza di certezze, ma è capace di paradossi, di cose inconciliabili e contrapposte e perché per andare avanti è necessario sia ricordare che dimenticare poiché, per dirla con Agnetti, “la cultura è l’apprendimento del dimenticare”. Quindi, come accade nelle pagine dell’esistenza singola e collettiva, la forza del racconto sta proprio nella sua capacità di svolgersi e di cancellarsi (per sempre o per un attimo) e ognuno ha la possibilità virtuale di riempire quel tenebroso e misterioso rettangolo di quello che vuole: immagini, pensieri, parole, ricordi, segni oppure… di nulla.

La vita e la storia sono viste dall’artista non più come sequenze cronologiche di attimi e di fatti, ma come cicliche alternanze (o sovrapposizioni) di ricordi e di amnesie, di presente e di passato, di pensiero e di sogno. E alla luce di ciò, l’arte stessa è intesa non più come mera rappresentazione, ma come territorio dove conoscenza e smemoratezza vanno di pari passo. Cosa dire davanti a quel feltro intitolato Paesaggio (1971), sul quale non si vedono linee di orizzonte, alberi o case, ma si legge, stampato a chiare lettere tipografiche, come fosse un volantino propagandistico, questo succinto e categorico impegno: “Costruiremo le case come una volta senza tetti e senza mura”?

Agnetti nel suo studio con le opere Mass Media e Della Provvisorietà Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti Milano
Agnetti nel suo studio con le opere Mass Media e Della Provvisorietà
Courtesy Archivio Vincenzo Agnetti Milano

Agnetti non usa il segno, ma la parola e il simbolo per affidare al pensiero di chi legge lo sviluppo e il senso di quanto l’artista ha scritto e immaginato. Tuttavia, chi legge si ritrova imprigionato in una sorta di cortocircuito mnemonico, a un collasso verbale che, come un cerchio, si chiude per ricondurlo all’origine, in un perpetuo e inarrestabile desiderio di trovare e perdere, di dire e negare. Così, se l’oblio e la memoria sono due dei paradigmi più interessanti dell’amletica visione di Agnetti, gli altri non sono da meno: i codici del linguaggio e del pensiero, il paradosso, la regola, il caso, il tempo, l’assurdo.

Ne è un’ennesima prova la famosa Macchina drogata (1968): una vecchia calcolatrice Olivetti, i cui centodieci numeri erano stati sostituiti con altrettante lettere dell’alfabeto, in modo che ogni digitazione dava luogo a parole senza senso e senza controllo: “E’ un’operazione di critica al linguaggio – ha scritto Agnetti-. Il codice numerico viene tradito in quanto codice ma non distrutti perché esso si trasforma in un’altra lingua, quella della parola. La dinamica propria dell’aritmetica dei numeri viene privata del suo significato abituale quando viene trasferita alle lettere. In questa opera si rivela anche una forma di scetticismo nei confronti della possibilità dell’arte d negare se stessa. Infatti la Macchina drogata opera il suo tradimento e diventa a sua volta creatrice; la macchina inibita nelle sue funzioni tecniche viene usata per creare delle nuove opere. Un altro elemento che compare in questa opere è l’avvenimento. La macchina esposta in una mostra produce da sé la propria mostra con l’intervento del pubblico: i suoi risultati vengono estratti e appesi al muro come quadri, o meglio come documenti di un’azione artistica”.[2]

Tutti i lavori di Agnetti che, lo ricordiamo per i pochi smemorati (tanto per restare in tema), è stato uno degli impareggiabili e arguti protagonisti dell’arte concettuale europea, come hanno riconosciuto in tanti (anzi, per Germano Celant, Agnetti è, con Castellani, uno dei migliori rappresentanti del “polo purista della ricerca visivo-concreta”[3]) e come dimostrano le opere raccolte da Bruno Corà e Italo Tomassoni al Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno (la mostra resterà aperta fino al 9 settembre), fondano la loro efficacia su un percorso che viene chiarito dall’artista stesso: “prima il dubbio, poi la poesia, la sintesi e quindi la lotta con il circondario umano”.

Apocalisse, 1970 Fotografia di Ugo Mulas
Apocalisse, 1970
Fotografia di Ugo Mulas

Un iter molto in sintonia con i tempi della sua ricerca, con gli anni che vedono la lotta sociale, la ribellione, la protesta, ma anche il bisogno da un lato di un estremo minimalismo materico (che ha le sue indubbie radici nelle esperienze duchampiane) e dall’altro di un impegno intellettivo molto forte e intimidatorio, che presuppone una collaborazione attiva dello spettatore, un ruolo registico dell’artista e una forza persuasiva di un linguaggio che si fa simbolo e grafia, verbo e illusione, territorio del conoscere e luogo della perdita. Pensiamo ad esempio a Entropia del 1970 oppure a Oltre il linguaggio del 1969, ma anche alla serie delle Photo-graffie degli ultimi anni, dove la carta fotografica è stata graffiata con una punta metallica per tracciare sottili fili di memoria, nuvole di punti luminosi, fiori fragili o personaggi trasparenti e inafferrabili come fantasmi.

Per tutto il suo cammino di artista e di pensatore, Agnetti ha voluto procedere per via di levare, togliendo orpelli e materia per arrivare a una sintesi che non rappresenti la fine, il sunto lapidario di un teorema, ma l’inizio di un nuovo e stimolante percorso di conoscenza e dunque di verità: “Saremo in Terra in Sole in Aria. /Poi col suonatore di fiori. Forse”.[4]

Lorella Giudici

D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012


[1] V. Agnetti, in G. Agnetti, Quando mi vidi non c’ero, catalogo mostra, Vincenzo Agnetti, Centro italiano arte contemporanea, Foligno 23 giugno- 9 settembre 2012, Skira, Milano 2012, p. 16.[2] Ivi, p. 112.

[3] G. Celant, in Piero Manzoni, catalogo mostra, Galleria d’Arte Moderna, Roma 6 febbraio-7 marzo 1971, De Luca Editore, Roma, s.p.

[4]  V. Agnetti, in G. Agnetti, Quando mi vidi non c’ero, catalogo mostra, Vincenzo Agnetti, Centro italiano arte contemporanea, Foligno 23 giugno- 9 settembre 2012, Skira, Milano 2012, p. 121.

 

 

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