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Scrivere il corpo

Si tratta sicuramente di una coincidenza. Non può essere altrimenti. Eppure, quando due scrittori tra i più noti in circolazione danno alle stampe, quasi in simultanea, altrettanti testi che trattano esattamente dello stesso argomento, viene da pensare che si siano messi d’accordo, come se volessero fare a gara l’uno con l’altro. A uno dei due era già successo una volta di trovarsi in una situazione simile. Paul Auster, autore di romanzi di successo quali Il libro delle illusioni e il più recente Sunset Park, nel 1991 aveva dato alle stampe Leviatano, il cui protagonista è un ex scrittore diventato terrorista, dedicandolo all’amico e collega Don DeLillo, il quale, pochi mesi prima, aveva pubblicato Mao II, dove viene presentato un interessante raffronto tra la figura dello scrittore, appunto, e quella del terrorista. È facile pensare che Auster e DeLillo si siano influenzati a vicenda, data l’amicizia che li lega.

Non è lecito fare lo stesso, invece, per quanto riguarda la succitata coincidenza per cui, in libreria, da qualche mese, è possibile imbattersi in Storia di un corpo, di Daniel Pennac e in Diario d’inverno di Paul Auster, due volumi che trattano esattamente dello stesso argomento: la vita di un uomo vista attraverso l’intimo rapporto con il suo stesso corpo, in tutte le sue età e manifestazioni. Se effettivamente si trattasse di una gara di bravura, in cui si sono vicendevolmente sfidati per vedere chi riesca a trattare meglio un tema tanto delicato e centrale quanto quello del corpo, allora, entrambi ne uscirebbero sconfitti. Né l’uno ne l’altro libro, infatti, possono essere catalogati nelle reciproche migliori produzioni. L’intento esplicitamente filosofico di dare forma a una precisa e minuziosa fenomenologia del corpo, che muove sia Pennac che Auster, è tanto intrigante in teoria, quanto tedioso nel risultato, per via dell’eccessivo utilizzo di elenchi e di descrizioni fin troppo intime, di cui sono “colpevoli” tanto il francese, quanto il suo collega americano. Eppure, in passato, lo stesso tema, pur non assumendo mai l’assoluta centralità, aveva già trovato spazio nei lavori dei due autori. Il corpo è un argomento ricorrente che palesa le eredità filosofiche di entrambi, in particolare il debito nei confronti di Maurice Merleau-Ponty, che proprio del corpo aveva scritto la prima inarrivabile analisi nel 1945, in Fenomenologia della percezione. «Io sono tutto ciò che vedo – scriveva il filosofo francese –, io sono un campo intersoggettivo, non a dispetto del mio corpo e della mia situazione storica, ma al contrario in quanto sono questo corpo e questa situazione e tutto il resto attraverso di essi». In sostanza, ciò significa che, in barba al dualismo cartesiano che separava di netto mente e corpo, per Merleau-Ponty, l’uomo, se non è essenzialmente corpo, non può aprirsi agli altri soggetti e al mondo in genere. Sia Pennac che Auster hanno utilizzato la stessa tecnica per rendere in forma narrativa il superamento del dualismo tra mente e corpo. Nel celebre e amatissimo ciclo di Maulaussène, il protagonista, Benjamin, investito del ruolo di narratore delle vicende sue e della sua numerosissima famiglia, non può che essere un uomo riflessivo, cerebrale, un po’ paranoico e verboso, perché il linguaggio è la funzione primaria della mente. Il suo perfetto contraltare è una donna, Julie Corrençon, che si esprime attraverso il corpo e che con esso ha un rapporto di una naturalezza estrema. Julie è tanto priva di fisime da essersi operata da sola di appendicite su di una barca nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Per la legge dell’attrazione degli opposti, il mentale Ben e Julie, “tutta corpo”, non possono che essere follemente innamorati l’uno dell’altra, ma il primo si sente in difetto nei confronti dell’amata proprio per via di quell’esuberanza corporea che la fa apparire molto più a suo agio di lui nel mondo, in connessione con esso.

Paul Auster - Diario d'inverno
Paul Auster – Diario d’inverno

Nei romanzi di Paul Auster, gli esempi di personaggi dicotomici sono numerosi. Il più lampante è senza ombra di tutto quello presentato in Moon Palace, del 1989. Leggendo la vicenda del Marco Stanley Fogg attraverso i termini di Merleau-Ponty è facile accorgersi che egli non è il suo corpo e, di conseguenza, manca dell’esperienza di se stesso come di un campo intersoggettivo. Dopo la morte dello zio Victor, l’unico legame famigliare che gli sia rimasto, Marco cade in un abisso di solitudine che lentamente lo cancella dal mondo. In seguito alla sempre maggiore mancanza di denaro, il ragazzo intraprende una sorta di procedimento ascetico di mortificazione del corpo, ingerendo solo il minimo necessario alla sopravvivenza. «Stavo cercando di separarmi dal mio corpo», dice Marco raccontando del suo dimagrimento progressivo. Non c’è da stupirsi che questa separazione dal corpo coincida con una separazione dal mondo. Marco vive la maggior parte del tempo chiuso in una stanza, senza frequentare nessuno, fino a quando, in preda alla disperazione, va alla ricerca di un vecchio amico e s’imbatte, invece, in Kitty Wu, che viene immediatamente presentata come l’emblema della corporeità e, di conseguenza, della socialità. Non è un caso che Kitty sia una ballerina e Marco un intellettuale. Sono due personaggi talmente antitetici ed estremi da poter essere pensati alla stregua di archetipi del corpo e della mente e simboleggiano l’instancabile ricerca di Auster di trovare un linguaggio che possa restituire perfettamente la dimensione corporea dell’essere umano, o, per metterla con le parole del filosofo Jean-Luc Nancy: «scrivere non del corpo, ma il corpo stesso. Non i segni, le immagini, le cifre del corpo, ma ancora il corpo». Sarebbe scorretto sostenere che, almeno in parte, i due scrittori, nei loro ultimi lavori, non siano riusciti a fare proprio questo – scrivere il corpo –, ma è quello che hanno sempre fatto e, sovente, con una dose di testardaggine decisamente minore, non sacrificando la storia in nome di un’ambizione filosofica, in nome del corpo.

Andrea Rodi

D’ARS year 53/nr 213/spring 2013

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