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Soggettivita’, linguaggio, ribellione

Ripubblichiamo questo testo apparso su D’Ars n 202/giugno 2010

Antonio Caronia è stato un amico, un maestro e un collaboratore di questa rivista: il 30 di gennaio Antonio ha intrapreso un lungo viaggio verso “universi paralleli”. A noi restano i suoi insegnamenti, le illuminanti analisi, le esortazioni, le sue posizioni fuori dal coro e la sua sterminanta conoscenza. Il coraggio del suo impegno. questo numero è dedicato a lui, con la promessa di continuare, senza sosta, a “gettare sassolini nell’ingranaggio”.

La redazione

Antonio Caronia durante una conferenza
Antonio Caronia durante una conferenza

Da oltre vent’anni, in Occidente, viviamo in un regime che ci garantisce una straordinaria abbondanza di beni materiali e immateriali, una moltiplicazione e un intreccio degli immaginari mai visto, l’accesso a una quantità di servizi e di occasioni che nessuna società aveva mai conosciuto prima. La ragione di tutto questo è che, verso la metà degli anni 1970, il sistema più dinamico e progressivo mai apparso sulla faccia della Terra, il capitalismo, ha cominciato a cambiare pelle, organizzando attorno al processo di valorizzazione economica l’integralità delle attività umane, mettendo al lavoro ogni segmento spaziale e temporale della vita umana, estraendo valore da ogni facoltà umana, a cominciare dalle più essenziali: il linguaggio, l’immaginazione, le relazioni, gli affetti. Non solo: questi nuovi settori dell’attività produttiva (l’industria dell’immaginario, del software e delle relazioni) sono diventati il cuore del sistema economico, il motore della valorizzazione, sostituendo i vecchi settori trainanti delle merci materiali, dell’acciaio e della plastica, delle grandi macchine e dei beni di consumo durevoli.

Il nuovo capitalismo “immateriale” (o “cognitivo”, o “postfordista”, visto che è stato chiamato in molti modi diversi), è stato reso possibile dalla forte accelerazione dell’integrazione e dell’internazionalizzazione di ogni aspetto della vita, dall’economia alla cultura, e dallo sviluppo e dalla diffusione delle tecnologie digitali. Queste ultime hanno agito su vari fronti, ma principalmente su due: quello della razionalizzazione dei processi organizzativi, realizzata con il passaggio di una quota crescente dei processi decisionali a procedure automatizzate gestite dai calcolatori, e quello del miglioramento in quantità, qualità e velocità dei sistemi di comunicazione. La crescente delocalizzazione delle attività produttive, il decentramento a ogni livello (outsourcing, outcrowding e così via), per esempio, non sarebbero stati possibili senza lo sviluppo della telematica negli ultimi trent’anni.

Ma tutto ciò ha un prezzo. Gli effetti più macroscopici ed evidenti di questa vera e propria rivoluzione si sono visti nel mondo del lavoro. L’economia funziona ormai prevalentemente grazie a una gigantesca e selvaggia precarizzazione del lavoro, che lascia soprattutto i giovani in balia di un sistema crudele e cinico di sottosalario, di supersfruttamento, di assenza di ogni garanzia. Le nuove generazioni dei primi decenni del XXI secolo sono le prime generazioni del mondo moderno per cui la parola “futuro” ha perso ogni significato. Il “futuro immanente” del capitalismo cognitivo non ha più niente a che vedere con il futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi della progettualità. Esso assomiglia ora piuttosto a uno spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio perennemente proiettati in avanti. “Non abbiamo futuro,” dice un personaggio di Gibson nel romanzo L’accademia dei sogni, “perché il nostro presente è troppo mutevole. Abbiamo solo rischi di gestione. La ricomposizione degli scenari a partire dai singoli eventi. L’individuazione di modelli.”

C’è di più. La messa a valore del linguaggio e delle relazioni implica la riduzione del linguaggio ad algoritmo, della relazione alla connessione. Implica (nonostante e contro la retorica dell’ideologia ufficiale del “liberismo”) la restrizione degli spazi di libertà, l’assoggettamento dei corpi, la normalizzazione dei linguaggi. Restrizione, assoggettamento, normalizzazione, sono certo suggeriti dal sistema politico, economico, mediatico, ma sono realizzati dalla più capillare rete di carcerieri che mai si sia vista: noi stessi. Così funziona oggi l’intreccio (al quale dedicò i suoi studi Michel Foucault), tra la società della disciplina e la società del controllo (spesso dell’autocontrollo). Ecco perché (per usare il termine spinoziano di Benasayag) questa è l’epoca delle “passioni tristi”.

Le classiche analisi di Horkheimer e Adorno sull’industria culturale (Dialettica dell’illuminismo), quella di Guy Debord sulla Società dello spettacolo, non avevano previsto se non marginalmente tutto questo. Esse vanno aggiornate secondo l’indicazione di Giorgio Agamben, quando ci suggerisce che “l’analisi marxiana va integrata nel senso che il capitalismo non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio stesso, della stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo.” (“Glosse alla Società dello spettacolo”). Ma allora, se ormai ogni aspetto della vita umana, ogni secondo del nostro tempo è coinvolto (sussunto) nel processo di valorizzazione, dobbiamo rassegnarci all’eternità di questo incubo? Io credo che possiamo uscirne, se vogliamo. Perché una segregazione a vita nel purgatorio, quando il paradiso non arriva mai, a lungo andare è intollerabile. E l’arte non ha nulla da dire (o da fare) in questa situazione? Forse l’arte nel senso dell’“arte di mercato” è effettivamente sorda e muta a questo proposito. Ma ci sono, per fortuna, altre esperienze: quelle di tanti artisti – e anche persone che non si definiscono tali – che lavorano all’interno o a contatto coi movimenti di opposizione sociale, e producono, più spesso che opere, azioni e situazioni che mettono in discussione questa realtà. Un esempio per tutti, a Milano, è il misterioso artista che si firma Fosco Loiti Celant, e che ha messo a segno sinora due pungenti e sarcastiche azioni, nel 2009 in occasione di Miart e nel 2010  al Salone del Mobile (www.foscoloiticelant.com). È evidente la connessione di queste azioni con il tema della guerriglia comunicativa, di cui l’esempio migliore  in Italia è San Precario e le esperienze che da lì hanno preso l’avvio (da Serpica Naro ad Anna Adamolo).

Se oggi l’arte (o l’attività prevalentemente espressiva degli esseri umani) ha un senso, deve parlarci di questo. Deve parlarcene proclamando e praticando l’irriducibilità del linguaggio all’algoritmo, la ribellione dell’espressione alla merce, la fuga della vita dall’immaginario precotto ed eterodiretto. L’arte come tavolozza del possibile oggi non può che essere ribellione e sovversione. Da sempre, come ci disse Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, là cresce anche la salvezza”. È giusto quindi cominciare con le parodie e con le beffe. La generazione più irrisa e truffata di tutta la modernità sta affilando i suoi denti, le sue parole, le sue righe di codice. Immaginari contro immaginari, parole contro parole, algoritmi contro algoritmi.

Antonio Caronia

D’ARS year 53/nr 213/spring 2013

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