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Sul concetto di vivente: interpretazioni e implicazioni

Parlare di vivente, di qualcosa di vivente per dirla con Paul Ziff, “…è parlare di un organismo in un ambiente.” L’ambiente, per l’artista e filosofo nordamericano, è quello in cui l’organismo attua il suo comportamento. Una riflessione sul vivente ne implica una sulla morte. Notevoli le parole di Ziff: “La morte è la dissoluzione della relazione fra un organismo e il suo ambiente”, la morte dunque “mi pluralizza”, è la conversione da uno a molti, in sostanza: “…mi amalgamo con il mio ambiente…”[1].

Jun Takita, Conversion d'énérgie, arte biotecnologica
Jun Takita, Conversion d’énérgie, arte biotecnologica

Oggi, in tempi in cui molti postulano un’età biopolitica determinante, o condizionante, quello che non è semplice definire vita ne è diventato il riferimento caratterizzante. Per Boris Groys, in questa età biopolitica “…è la vita stessa (che) è diventata l’oggetto di interventi tecnici e artistici…”. Comunque, peraltro in maniera non condivisa, si configuri il proprio orizzonte biopolitico, Groys molto opportunamente collega queste azioni dirette sulla vita alle relazioni fra arte e vita. Quanto è già tardo-biologica la nostra età? Gli approcci, come vedremo, sono diversi e divergenti.

Pier Luigi Capucci a ragione ritiene come, fondandosi anche su un rapporto antico fra arte e materia organica, la storia dell’arte “…è stata influenzata dal vivente, da ‘ciò che vive’…”, ma biologia, tecnoscienze, “…e alcune discipline che le ruotano intorno” hanno provocato un cambiamento decisivo[2]. Egli indica, in prospettiva storica, quanto sia stato rilevante il passaggio da ‘ciò che vive’, inteso come ispirazione e modello per gli artisti, a una molteplicità di approcci e forme espressive derivanti da discipline diverse.

Eduardo Kac, artista emblematico per le sue ‘opere transgeniche’, richiama a un’attenzione precisa su nuovi esseri viventi creati dall’uomo, quindi non solo prodotti dalla ‘natura’. Un suo libro recente, scritto con Avital Ronell, una protagonista della nuova scena filosofica americana, tratta di “piante e animali unici”, narrando “…un’altra storia della vita sul nostro pianeta.” Per Kac, “…si tratta di spostare lo spazio privato del laboratorio al centro di quello sociale, trasformando l’oggetto in soggetto.” Il dialogo fra l’artista e la filosofa si snoda su questioni molto controverse, dai limiti dell’umano alle nuove frontiere tecnicamente possibili, dalle biotecnologie alle distinzioni fondamentali: naturale e artificiale, uomo e macchina, natura e tecnologia. Uno sguardo su queste forme iper-viventi, come le chiama Avital Ronell, frutto “…né veramente della Natura, né della tecnologia…”, focalizza il suo interesse verso le fobie che questo “…può suscitare presso i cosiddetti umani…”. La sua domanda, poi, è quella che ritorna: che cos’è il vivente? E la Ronell non manca di metterlo in acuta relazione con tecnologie e macchine, “…che sono piuttosto dalla parte della morte…”[3].

In questi ultimi anni gli sviluppi delle scienze della vita e, per sintetizzare, quelli che Oron Catts e Ionat Zurr di SymbioticA indicano come “fenomeni di arte biologica”, spesso legati a diversi livelli di manipolazione dei sistemi viventi, producono effetti contrastanti. Di per sé, il panorama che cambia di continuo delle scienze della vita, e a questo alcune pratiche artistiche sono sensibili, agisce sul come, individualmente e comunitariamente, si percepisce la vita. Riferendosi al dissolvimento dei confini della continuum della vita, per citare gli autori, e a questa necessità che si presenta, come sostiene Capucci, di rifocalizzare quanto confluisce nella soglia in cui agisce il vivente, si nota “…un numero crescente di artisti (che) si stanno impegnando a diversi livelli di manipolazione dei sistemi viventi…” [4]. Del tutto consapevoli “…che la vita non è un programma codificato e che non siamo il nostro DNA…”, Catts, Zurr riflettono con attenzione sulle critiche – non di rado ottuse – mosse alle tecnologie che, freneticamente e con risultati dirompenti, si applicano al vivente, ma mettono in guardia rispetto alla disinformazione e alla confusione che, talvolta, animano un’opposizione rigida e intollerante.

Da sola, tuttavia, la biologia non basta più come sistema di riferimento, come si desume da autori come Eugene Thacker. Per Roberta Buiani “…la biologia ormai non è più un sistema di riferimento, ma un sistema che va a braccetto con l’informatica..”. Per la ricercatrice di Toronto, “…se la vita è fatta di informazione e l’informazione è vita, le due cose si bilanciano…”. E’ la ripresa della tesi di Thacker, della loro parità e complementarietà nel DNA computing e in bioinformatica[5]. Si sta affermando un nuovo ordine nella relazione fra umani e ambiente? La domanda l’ha sollevata Louis Bec, rifacendosi all’analoga questione posta, a suo tempo, da Kafka e ripresa poi dal filosofo Vilém Flusser. Bec attua un collegamento scaltro e, allo stesso tempo, perturbante sul come collegare quanto sopra alla ‘metamorfosi animale’, quella che va nella direzione contraria, ovvero “…l’eterno ritorno alla natura animale…”[6].

L’invasione tecnologica della natura, e soprattutto della vita, è antica: un’interpretazione puntuale sulla dibattuta differenza fra un passato arcaico e il presente, “…è che tecnologie quali la coltura cellulare, trapianto di organi, medicina riproduttiva e simulazione computerizzata di processi biologici pongono in questione la distinzioni tradizionali fra natura e tecnologia”[7]. Uno dei concetti chiave su cui si muove Nicole Karafyllis è quello di “crescita”, fenomeno che media tra “…il mondo scientifico che genera biofatti” e il mondo dell’esperienza quotidiana e dell’eredità culturale, quello che suggerisce “…le identità ibride del vivente” (il corsivo è dell’autrice). Il brillante neologismo, Biofakte, “…si riferisce a un essere che è naturale e artificiale, l’uno e l’altro…”. Un termine neutro, nelle intenzioni della filosofa e biologa tedesca, “…che contiene un ampio spettro entro due poli: le entità viventi naturali e gli artefatti tecnici”. Un termine, dunque, ritenuto meno complicato da impiegare quali, per citarne qualcuno, chimere, cloni, replicanti, cyborgs… Una sorta di terza via fra ‘naturalezza’ e ‘artificiosità’ e, forse forzando un po’ il suo pensiero, i biofatti influenzano quella produzione di ibridità che ha conseguenze antropologiche importanti. Un ibrido, come scrive Hauser citando il neologismo in questione, “…fra una cosa epistemica e un essere vivente, o sistema, dove (…) la crescita è indotta da un trattamento tecnico”[8].

[Una versione più ampia di questo testo è stata pubblicata su Noema, http://www.noemalab.org]

Franco Torriani

D’ARS year 48/nr 193/spring 2008

 


[1] Paul Ziff, “The Feelings of Robots”, Analysis, vol.19, n.3, gennaio 1959.

[2] Pier Luigi Capucci, “La doppia articolazione del vivente”, in Ivana Mulatero (a cura di), Dalla Land Art alla Bioarte, Hopefulmonster, Torino, 2007 (convegno organizzato dal Parco d’Arte Vivente, GAM, Torino, 20 gennaio 2007).

[3] Eduardo Kac, Avital Ronell, Life Extreme. Guide illustré de Nouvelles Formes de Vie, Editions Dis Voir, Parigi, 2007.

[4] Oron Catts, Ionat Zurr, “The Ethics of Phenomenological Engagement with the Manipulation of Life”, in Beatriz Da Costa, Kavita Philip (a cura di), Tactical Biopolitics. Art, Activism and Technoscience, MIT Press, 2008. Libro in uscita.

[5] Da una conversazione con Roberta Buiani, febbraio 2008. Su Eugene Thacker, cfr. Biomedia, Minneapolis, USA, 2004.

[6] Louis Bec, introduzione alla conferenza internazionale MutaMorphosis: Challenging Arts and Sciences, 8-10 novembre 2007, Praga.

[7] Nicole C. Karafyllis, dalla sua lezione “Cultural Philosophy and History of Productive Life”, Università di Addis Abeba, 16 aprile 2007.

[8] Nicole C. Karafyllis, Biofakte. Versuch ueber den Menschen zwischen Artefakt und Lebewesen, Mentis, Paderborn, 2003. Per J. Hauser, “Forward/Backward…”, op.cit.

 

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