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The World is not fair

Mentre gli eventi catalizzatori della stagione berlinese si succedono puntuali secondo la “prodigiosa” sequenza Biennale, Festival del Design e Settimana della Moda, fuori da ogni routine salottiera Hau e Raumlaborberlin hanno presentato The world is not fair – Die grosse Weltausstellung 2012, al parco dell’ex-aeroporto di Tempelhof (1-24 giugno). Una parodia del paradigma esposizione universale, un esperimento low-fi su larga scala dove la dimensione partecipativa si declina tra architettura, installazioni, performance, vissuto urbano e natura. Sembra troppo? In realtà nessun elenco potrebbe essere esaustivo perché proprio a differenza della grandeur nazionalista e del feticismo quantitativo che contraddistinguono le cosiddette expo, qui sono i processi, l’inatteso, la distanza, la provvisorietà, la continua rinegoziazione dei confini a segnare l’esperienza estetica.

Il progetto è curato dal direttore artistico del teatro HAU (Hebbel am Ufer), Matthias Lilienthal, che dopo nove anni lascia il suo incarico per insegnare all’Home Workspace Program di Ashkal Alwan a Beirut, succedendo come Resident Professor a Emily Jacir. Si tratta perciò di una mostra-addio, una sorta di coronamento dei successi che hanno trasformato l’HAU in uno dei luoghi più sperimentali nel fermento berlinese dell’ultimo decennio. A settembre sarà la curatrice belga Annemie Vanackere a ricevere questa prestigiosa eredità per la quale lascia la direzione del teatro Schouwburg di Rotterdam.

Hans-Werner, Kroesinger Feldpost, 2012
Hans-Werner, Kroesinger Feldpost, 2012. Foto Clara Carpanini

Pur non potendo essere la summa di tutto ciò che è passato per l’HAU, la Weltausstellung rievoca sicuramente alcuni motivi artistici e curatoriali attorno ai quali si è espressa una scena vivace, anti-convenzionale, cosmopolita che qui ha trovato il suo pubblico ideale. Un pubblico cacciatore di esperienze e di nuovi orizzonti di senso, amante della danza contemporanea e desideroso di mettere alla prova format diversi, facendo cozzare strutture comunicative, entertainment, reality, happening. Non ultima l’affinità elettiva con Berlino: le domande che la città solleva – tra il suo passato incombente e la tensione cieca verso il futuro – sono profondamente vicine alle ricerche presentate all’HAU. Come operano i percorsi della memoria nel presente? Che rapporto c’è tra biografia e storia, tra corpo biologico e corpus/archivio? Come realizzare un futuro sostenibile? Come (ri)pensare la multiculturalità? Come declinare lo spazio pubblico nelle sue nuove forme materiali e digitali? Come si declinano le sfumature identitarie nel mondo globalizzato?

Perciò la scelta della location cade su uno dei luoghi simbolici della capitale tedesca, l’ex-aeroporto di Tempelhof, nella consapevolezza di erodere dall’interno una definizione altisonante come Weltausstellung: 15 padiglioni “spuntano” in un parco/ex-pista d’atterraggio dalla superficie complessiva di oltre 220 ettari, per lo più non alberata. Il tutto per sottrazione di significato perché la storia del luogo[1] rischia di sovrastare qualsiasi intervento, tanto che alcuni artisti – come Hans-Werner Kroesinger con Feldpost 2012 – scelgono di incorporare le tracce dell’architettura preesistente. E per la dilatazione delle distanze che impongono allo spettatore di esplorare la mostra in bicicletta, mappa alla mano, inglobando di necessità tutta la vita che in parallelo accade nel parco, negando ogni separazione illusoria tra realtà e messa in scena. Solo un piccolo braccialetto di carta distingue coloro che hanno il permesso di entrare nei padiglioni, complici del gioco e  “corpi estranei” agli occhi dei frequentatori abituali del parco.

Umschichten Festivalzentrum
Umschichten Festivalzentrum, foto Clara Carpanini

Da menzionare l’ecosostenibilità del progetto: i padiglioni (laddove costruiti ex-novo) sono in legno o materiali riciclabili, esposti ad ogni condizione atmosferica. Alla fine chi si sarà offerto di aiutare a disallestire il tutto, potrà portarsi a casa dei pezzi a scelta per riutilizzarli a impatto zero. Il Festivalzentrum, ossia l’ingresso principale con il piccolo bar e l’arena per i dibattiti, segue gli stessi principi. Realizzato dal duo di archittetti Umschichten (Peter Weigand e Lukasz Lendzinski) è fatto di materiali modulari, presi in prestito, che non richiedono ulteriori lavorazioni per il montaggio e che verranno semplicemente restituiti in una prospettiva di pre-cycling e architettura fluida. Si tratta di micro-pratiche che sono parte essenziale anche della filosofia di vita berlinese.

Ogni padiglione è, dunque, un piccolo mondo fluido, da attraversare, mai uguale a se stesso, animato da performance o workshop come, per esempio, la serie curata dall’Institut für Raumexperimente di Olafur Eliasson insieme ai suoi studenti dell’UdK di Berlino. Il collettivo artistico andcompany & Co mette in scena il World Freud Center un sito ibrido che tematizza i confini tra interno ed esterno in prospettiva globale, operando come stage, spazio espositivo e luogo di trattamento pubblico delle nevrosi dei pazienti. Dall’altra parte del parco, in questa mostra fuori-scala, l’architetto berlinese Lukas Feireiss va alla ricerca dell’isola in quanto spazio utopico, esplorando le sue numerose interpretazioni letterarie in collaborazione con alcune classi di scuola elementare del quartiere. Il suo padiglione è in progress, anche i visitatori sono invitati a interagire. Dellbrügge & de Moll, con il loro Camp der Renegaten, si confrontano invece con il dato statistico secondo cui a Berlino vivono almeno 10.000 artisti interrogandosi sulle condizioni precarie della loro esistenza futura e proponendo la costruzione di una colonia di artisti. Il padiglione rappresenta l’abbozzo del progetto, un modulo primario interattivo con riferimenti storici, proposte dettagliate e perfomer che accendono la discussione con il pubblico facendo tesoro dei vari feedback. Un approccio più esplicitamente legato alla dimensione nazionale si trova, infine, nella costruzione di Toshiki Okada Unable to See che tematizza la percezione dell’incidente di Fukushima, in Double Shooting di Rabih Mroué, un’installazione video sulla guerra civile in Siria e nella soap opera sull’apartheid messa in scena da Tracey Rose, ospite a Berlino del prestigioso programma DAAD.

Clara Carpanini

D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012


[1] Il complesso architettonico dell’aeroporto risale al periodo nazista. Durante la guerra diventa un campo di lavori forzati per migliaia di prigionieri, finché gli alleati non lo riutilizzano come base per il famoso ponte aereo che tra il 1948 – 49 permette alla popolazione di Berlino Ovest di ricevere beni di sussistenza facendo fronte al blocco imposto dalle truppe sovietiche. Ha continuato a funzionare come aeroporto fino a pochi anni fa e dopo una serie di vicende politiche e di mobilitazione popolare, la zona della pista è stata messa a disposizione della cittadinanza come parco pubblico da maggio 2010. Alcune parti del fabbricato vengono occasionalmente utilizzate per fiere o concerti. Il futuro di Tempelhof è tra i temi più sentiti dalla cittadinanza berlinese. L’ultima amministrazione ha proposto la creazione di una cittadella culturale con parco, biblioteca e spazi polifunzionali ma di fatto non esiste ancora un progetto concreto.

 

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