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AntiSocial NotWorking

Condividere testi, immagini, video e audio è da sempre il modo più comune di vivere la rete. Ma siamo ormai di fronte ad un imperativo quotidiano quello di essere sociali, cioè moltiplicare il numero delle nostre relazioni scambiando e producendo ogni sorta di contenuto. Le piattaforme per poterlo fare sono numerose: social network di massa o tematici e applicativi per smartphone per ogni esigenza. Il termine generico “social media” non serve solo a definire un settore delle rete ma un cambiamento fondamentale sia nell’ambito della produzione economica che nell’idea comune di socialità e relazione. Il progetto curatoriale di Geoff Cox, AntiSocial NotWorking, sviluppato all’interno della fondazione inglese Arnolfini che da 50 anni si occupa di arte contemporanea, analizza entrambi gli aspetti raccogliendo analisi teoriche e lavori in rete che hanno messo in evidenza gli elementi critici di questo fenomeno. Tutti i materiali si possono trovare catalogati all’interno del sito del progetto . Nel testo Antisocial Applications: Notes in support of antisocial notworking lo stesso curatore inglese ha messo in evidenza le modalità con cui il sistema economico stia creando valore attraverso le relazioni umane portando, così, ad una biopolitica sempre più attenta agli aspetti privati e particolari dei singoli soggetti. Lo sfruttamento economico delle attività relazionali amplifica le potenzialità dei prosumer, cioè di tutti quegli utenti che producono e consumano i contenuti dei social media condividendoli attraverso un solo click con centinaia, a volte anche migliaia di “amici”. Tra le caratteristiche più importanti delle piattaforme c’è quella di dare un senso e un nome più o meno vincente alle singole azioni compiute dagli utenti. Aziende come Facebook compiono quasi sempre un’operazione linguistica di questo tipo. Questo è quello che ha cercato di evidenziare Nicolas Frespech con Add to Friend, un lavoro concettuale del 2008 in cui l’autore isola dal contesto di Facebook il bottone che viene utilizzato per aggiungere amici al proprio profilo, allontanandolo dalla presenza degli altri utenti per riportarlo ad una pura azione meccanica. Ogni volta che il pulsante viene cliccato dal visitatore della pagina il contatore di amicizie si aggiorna. La pagina bianca, quasi vuota può lasciare scontento l’utente ma ciò che appare, ironicamente, è il portato di senso ed affettività che quell’azione assume all’interno della piattaforma in cui è stata ideata. L’aspetto positivo dell’idea di amicizia è, forse, stato l’elemento più criticato di Facebook. Nel 2007 Nils Andrei con il progetto Hatebook proponeva un corrispettivo negativo del social network dei vecchi amici di scuola. Questo anti-social network si presentava come la piattaforma in grado di disconnetterti da tutto ciò che odi, si basava cioè su di un principio opposto a quello della connessione tra amici. Dello stesso anno è Myfrienemies lavoro di Angie Waller che non faceva esplicito riferimento a Facebook come nel caso di Hatebook e a differenza di questo non aveva l’intento di mettere esclusivamente in evidenza sentimenti negativi ma si proponeva di creare connessioni tra gli utenti sulla base di antipatie comuni.
In questi lavori gli autori pongono l’attenzione su di un elemento che sicuramente è il centro del funzionamento di questo social network cioè le relazioni interpersonali ma si concentrano esclusivamente sul significato socialmente condiviso della parola amico facendo emergere la necessità di una più ampia gamma di definizioni per i rapporti sociali.
Rispetto a questo Cox afferma che Facebook, come anche il suo corrispettivo negativo Hetebook, sono piattaforme anti-sociali poiché prive di una dialettica negativa, una dialettica antagonista che si basa necessariamente sulla contrapposizione di due termini per poter generare consapevolezza politica. Un critica di questo tipo, ricca di rimandi alla tradizione teorica dell’autonomia italiana, però, non tiene conto della molteplice varietà delle relazioni interpersonali e delle diverse sfaccettature di godimento insite in ognuna di esse, ma soprattutto continua a fare riferimento ad astratte categorie relazionali applicabili a gruppi ampi. Per questo è interessante Isolatr un’operazione ironica del 2006 elaborata dal gruppo blogging.la di Los Angeles per denunciare l’insistente retorica di molte piattaforme rispetto alla socializzazione e alla connessione con gli altri. Il sito si presenta con un normale social network ma nella sua homepage si scopre che la sua tecnologia brevettata aiuta gli utenti a trovare i luoghi in cui non ci sono gli altri. Un social network in cui è impossibile iscriversi, in cui nessuno è presente. Un nonsense relazionale che non è un rifiuto delle relazioni interpersonali bensì la negazione di quel senso imposto dai social media che presuppone la presenza di molti altri significati.

Il processo di astrazione che viene attuato dai grandi social network non è solamente un espediente di marketing ma un processo di astrazione ben più profondo che parte dal codice informatico sino ad arrivare, attraverso una complessa rete di feedback, all’interfaccia e che ha come elemento centrale l’informazione.

Angie Waller, Myfrienemies
Angie Waller, Myfrienemies

Molto spesso si parla di linguaggio informatico mettendo in evidenza la bellezza formale di questo sistema logico. Non sono mancati anche nella net art lavori che inseguivano l’estetica di un codice ben formato, in grado di racchiudere in pochi passaggi molti significati. Altrettanto spesso si parla di informazione in termini astratti esaltando la performatività dei computer. Questo atteggiamento culturale ha portato ad un dominio informazionalista definito da Eugene Thacker in Foreword: Protocol Is as Protocol Does una entità reale-ma-astratta la cui ambivalenza crea le condizioni di forza per una società del controllo.
Diversi anni prima, già, Vilém Flusser aveva spiegato come da secoli l’uomo avesse avviato un processo di astrazione sul mondo di cui i computer sono stati il frutto. Le macchine informatiche sono sistemi formali per lo scambio di dati attraverso un canale che ne definisce la forma e le regole. Questi sistemi migliorano la propria forma nel tempo anche attraverso gli ostacoli posti da chi lo utilizza ma il loro scopo e arrivare alla completa automazione. La sensazione è che spesso non si riesca ad esprimere appieno la variabilità della condizione umana, che rimanga inespresso qualcosa che resiste alla semplificazione di questi sistemi. L’obiettivo non è quello di risalire alle intenzionalità della programmazione ma di rielaborare un atteggiamento in larga parte culturale. Gran parte delle opere presenti nel progetto di Cox rispondono alle indicazioni date anche da Flusser, cioè si tratta di lavori che lottano contro il funzionamento automatico di questi apparati che tendono ad escludere l’umano. Probabilmente questa potrebbe essere il nuovo orizzonte per tutti quegli artivisti che si sono da sempre relazionati in modo critico con i media. Fino ad arrivare a rivelare, come afferma Flusser: “che nell’ambito degli apparecchi automatici, programmati e programmanti non vi è posto per la libertà umana, per mostrare infine come sia comunque possibile aprire uno spazio di libertà […] Una tale filosofia è necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa” .

Loretta Borrelli

D’ARS year 51/nr 206/summer 2011

 

[1] http://project.arnolfini.org.uk/projects/2008/antisocial/

[1] Eugene Thacker, “Foreword: Protocol Is as Protocol Does” introduzione a: Protocol, di  Alexander R. Galloway, MIT, USA 2004, p. 12

[1] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Mondadori, Milano 2006, p. 111

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