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Hacking. La sfida intellettuale della software culture

Marco Cadioli (aka Marco Manray), Oranienburger Strabe, Berlin, 2009
Marco Cadioli (aka Marco Manray), Oranienburger Strabe, Berlin, 2009

 Nel Jargon File,Eric Raymond utilizza ben otto definizioni per inquadrare con sufficiente precisione la figura dell’hacker; in particolare nella settima si legge che un hacker è: “One who enjoys the intellectual challenge of creatively overcoming or circumventing limitations”.

Raymond traccia un profilo che offre parecchie possibilità di aprire il termine ‘hacker’ a un utilizzo più ampio e generico, quale – ad esempio – quello che propone il celebre “manifesto hacker” in cui McKenzie Wark mette in luce l’avvento di una nuova classe, quella appunto degli hacker, alla quale appartengono – almeno potenzialmente – tutti i lavoratori immateriali del mondo.

Tanto Raymond quanto McKenzie Wark, pur con inevitabili distinguo, sottolinenano come per essere considerato un hacker è decisiva la condivisione di alcuni principi etici, principi approfonditi da Pekka Himanen che sottolinea come valori guida quali la passione, il gioco e la libertà, fondano la concezione del lavoro hacker in opposizione all’etica capitalistica dell’interesse economico sopra tutto (e tutti). Oltre la sfera prettamente economica anche valori sociali, come la condivisione dei risultati del proprio lavoro, possono offrire un importante supporto affinché si affermi una concezione etica dell’esistenza e – insieme – l’occasione per ottenere il più alto riconoscimento da parte della propria comunità.

Prendendo le mosse da tali coordinate certe, proverò a verificare l’ipotesi che le modalità caratterizzanti l’agire hacker si sono diffuse ben oltre l’ambito della comunità originaria e ciò in risposta a due precise dinamiche sociali. La prima è la generale fascinazione per l’universo hacker, una tendenza puntualmente testimoniata dai media più vari che fanno a gara nell’offrire rappresentazioni di un life style la cui più intima natura è proprio l’essere borderline, perennemente in bilico sul ciglio della legalità. Nell’immaginario collettivo occidentale l’hacker ha progressivamente sostituito la spia ovvero la figura che ha dominato la scena dal dopoguerra sino al Mauerfall: dissoltasi la Cortina di ferro le spie sono cadute in disgrazia ed è emersa rapidamente una nuova figura in grado di muoversi nell’ombra tra segreti da svelare e codici da decifrare.

L’altra dinamica sociale è quella che Manovich definisce “softwarizzazione” ovvero il ruolo decisivo assunto dal software in ciascuna delle principali dimensioni del vivere sociale contemporaneo: informazione, conoscenza e reticolarità. Viviamo in una software culture nella quale il software è alla base delle fasi di creazione, distribuzione e fruizione di un numero sempre maggiore di oggetti culturali. In tale tipo di cultura i media finiscono per rappresentare altrettanti mattoncini che è possibile combinare a proprio piacimento per dar vita a media ibridi (media che ibridano i linguaggi e le proprietà dei mattoncini/media di partenza).

Ciò che più rileva nell’ottica del mio ragionamento è che tali processi di ibridazione sono sempre più aperti alla partecipazione degli utenti, infatti una delle dimensioni costituenti dell’epoca che viviamo è l’infinita editabilità dei contenuti mediali che sono fruibili ma anche modificabili da chiunque abbia gli strumenti adatti e quel minimo di conoscenze richieste da software ogni giorno più alla portata di tutti. In particolare, con il rilascio da parte di Google, Flickr ecc. delle proprie API, si è presentata per tantissimi utenti la possibilità di agire creativamente sui dati e di provare il piacere derivante dalla sfida intellettuale di aggirare creativamente limiti.

Siamo dunque di fronte ad alcuni degli elementi costitutivi l’attitudine hackere tale considerazione dovrebbe già essere sufficiente a supportare l’ipotesi di partenza: pur non condividendo nella sua totalità l’universo dei valori hacker (e finanche ignorandolo completamente) agiamo sempre più spesso secondo una precisa attitudine hacker, quella di mettere le mani nel codice (anche se spesso attraverso la mediazione di un’interfaccia) e di vedere cosa ne viene fuori.

Volendo ora inquadrare il fenomeno dal punto di vista artistico è possibile radicalizzare il concetto e sostenere che le modalità operative hacker sono divenute, semplicemente, una pratica quotidiana comune alla gran parte degli artisti contemporanei. Un solo esempio sarà sufficiente a comprendere il senso della mia affermazione: in Remap Berlin (2009), Marco Cadioli compie un hack del celebre Google Earth, egli infatti realizza alcune foto in Twinity (un metaverso che riproduce una replica realistica in 3D di Berlino), le geo-localizza in Google maps e in seguito le uploda su Panoramio (la photo sharing community collegata a Google Earth). Quindi, dopo essere state visionate e scelte, in quanto ritenute conformi alla acceptance policy, possono essere trovate come “Popular photos” in Google Earth. In pratica, è Google stesso a scegliere alcune immagini in 3D e a confonderle per foto realmente scattate a Berlino; come che sia, le foto dell’artista milanese convivono con quelle di centinaia di turisti e fotografi amatoriali. Ciò che più è interessante ai fini del mio discorso è che Cadioli agisce come un hacker pur non essendo (e non sentendosi) tale, e pur non disponendo di particolari conoscenze nel campo della programmazione.

Se inquadriamo tale progetto artistico nella cornice interpretativa proposta da McKenzie Wark, non possiamo non concludere che Cadioli hackera la rappresentazione del mondo proposta dalla “classe vettoriale” (la nuova classe che si è sostituita al capitale come classe dominante; nel nostro esempio: Google) aprendo il “vettore” (i mezzi attraverso cui l’informazione viene prodotta e i canali attraverso cui viene distribuita; nel nostro esempio: Google Earth) alla “produzione di qualità escluse dalla forma dominante della comunicazione”.

Marco Cadioli (aka Marco Manray), Oranienburger Strabe, Berlin, 2009
Marco Cadioli (aka Marco Manray), Oranienburger Strabe, Berlin, 2009

Affrontando la questione in termini più generali mi sembra possibile affermare che oggi tutti gli artisti tendono ad operare come hacker, essi infatti, sfruttando le possibilità offerte dall’attuale software culture, ibridano diversi linguaggi e tecniche mediali; mostrano la volontà programmatica di mettere in discussione in modo sistematico le convenzioni (rappresentazione, interfaccia ecc.) delle diverse forme mediali che compongono ciascun ibrido mediale; antepongono – molto spesso – l’approvazione e l’ammirazione da parte della comunità dei pari a quella dei mercanti, partecipando in tal modoa quella economia alternativa di beni simbolici che si fonda proprio sull’etica hacker.

 Vito Campanelli

D’ARS year 51/nr 206/summer 2011

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