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Beuys ama l’Italia l’Italia ama Beuys?

“L’arte non è solo per essere capita, altrimenti non avremmo bisogno dell’arte”[1].

Joseph Beuys

Beuys è arrivato per la prima volta in Italia nel novembre del 1971, su invito di Lucio Amelio per una mostra che il gallerista napoletano gli aveva organizzato negli spazi della sua nuova galleria (che da quell’anno aveva traslocato in Piazza dei Martiri e aveva preso il suo nome). Da quel momento il legame tra Beuys e il Bel Paese non si è mai interrotto, anzi si è rafforzato nella collaborazione con artisti, intellettuali, giovani e tanti uomini comuni, ma soprattutto si è cementato con l’assidua frequentazione e la generosità (intellettuale prima ancora che materiale) della famiglia Durini (il barone Buby e la moglie Lucrezia De Domizio), con cui ha condiviso idee e progetti, momenti di vita e una lunga amicizia. Nel periodo che trascorse nella loro tenuta di Bolognano (in pratica gli ultimi 15 anni della sua vita), Beuys ha portato a termine una gigantesca e complessa opera che ha chiamato Difesa della natura e che oggi dà il titolo alla mostra allestita nei bellissimi spazi del Kunsthaus di Zurigo (un luogo dove l’arte di ieri e quella di oggi s’incontrano senza soluzione di continuità e dove l’atmosfera degli spazi aperti e luminosi non fa che assecondare la bellezza e la sacralità dell’arte), il cui nucleo di partenza sono le cinque vasche d’arenaria colme d’olio, Olivestone (1984), che la famiglia Durini aveva donato al museo svizzero nel 1992. Tutte le opere, i documenti, le fotografie, gli oggetti, i cento cartoni di vino (marchiato F.I.U – Free International University), le bottiglie d’olio, le certificazioni, la pala (che esprime già da sola l’idea della creazione) e i video che compongono la mostra, per volontà della stessa famiglia, entreranno definitivamente a far parte delle raccolte del museo elvetico, formando uno dei nuclei pubblici più importanti dedicati all’artista tedesco.

In molti parleranno della mostra zurighese (che per altro si sofferma solo su una parte delle esperienze beuysiane) e altrettanti commenteranno il bel volume che l’accompagna (Beuys voice): una poderosa monografia di 1000 pagine (a cura di Lucrezia De Domizio Durini e edita da Electa), molto più articolata della mostra, in cui sono ripercorse dettagliatamente tutte le sue vicende artistiche e biografiche e dove sono state raccolte le autorevoli voci di chi, negli anni e a vario titolo, si è soffermato sul lavoro di questo “Sciamano dell’arte” (compreso qualche “sassolino”, con tanto di nome e cognome, che la De Domizio ha voluto togliersi dalla scarpa). Da parte mia vorrei approfittare di quest’evento per una breve riflessione su alcuni aspetti della ricerca beuysiana, magari partendo proprio da Olivestone, per mettere meglio a fuoco qualche aspetto del suo pensiero e con esso il suo rapporto con l’Italia.

Joseph Beuys, Olivestone, 1984
Joseph Beuys, Olivestone, 1984

Olivestone è una delle tante azioni che Beuys ha partorito e realizzato in Abruzzo. Le cinque vasche, che dal 1500 servivano per la decantazione dell’olio d’oliva, sono state riempite con altrettanti parallelepipedi d’arenaria tagliati a misura per potersi incastrare perfettamente nell’incavo delle pietre, lasciando liberi solo pochi millimetri lungo tutto il perimetro, ossia lo spazio necessario per accogliere l’olio, che prima cola all’interno e poi si deposita sulla superficie del sasso, a formare un meraviglioso specchio scuro, un sottile e magico velo verdastro che assorbe e stempera la luce in morbidi riflessi come l’acqua di uno stagno: silenzioso, immobile e misterioso. La prima volta che vidi queste pietre al Castello di Rivoli ero ancora una giovane studentessa, ma il poderoso ricordo di quella visione (oltre che l’intenso profumo di olio che emanano), lo conservo ancora oggi e si è rinnovato a Zurigo, dove le Olivestone (parola dal doppio significato: nocciolo dell’oliva oppure oliva + pietra) sono ormai di casa. L’olio, che all’apparenza sembra accarezzare e ingentilire le asperità della pietra, come a voler far scivolare una forma nell’altra, in realtà finirà per trasformare la massa che lo contiene. La penetrerà fino al cuore e il liquido avrà la meglio su quella possente e ingombrante cassa che già da ora ha un’aria un po’ cimiteriale, quantomeno da altare sacrificale. L’olio e le pietre sono un prodotto umano. Senza la mano dell’uomo quei due elementi non si sarebbero mai incontrati e non avrebbero cominciato quell’esistenza osmotica e sinistra (una condizione simile si verifica nelle opere con il feltro o con il grasso, le materie che Beuys ha sempre usato per addolcire gli angoli, attutire i rumori, riscaldare e proteggere i corpi) che a dispetto della sua apparente quiete porterà a una trasformazione finale. Non più sasso e olio, ma un nuovo organismo. Le due pietre sono l’una il passato e l’altra il presente. L’olio è il futuro che fa da conduttore tra le due. Una metafora della vita, un percorso iniziatico, una riflessione sull’uomo. Tutta l’arte di Beuys è antropologica e tutta la sua ricerca è focalizzata sulla possibilità di ritrovare l’equilibrio, la forza originaria, l’aspetto “sociale” (nell’uso più ampio e democratico del termine) del fare e della vita. “Tutti gli uomini sono artisti”, diceva. Nel senso che tutti devono mettere vitalità, passione e amore in ciò che fanno. Tutti devono trasmettere energia viva, la stessa che c’è nella natura, perché uomo e natura appartengono al medesimo organismo. Difendere la natura per Beuys (fondatore in Germania del movimento verde) significa partire dall’uomo per arrivare all’uomo, significa educare a un bello che non è nelle forme, negli orpelli, nell’estetica, ma nella vita stessa, nel pensiero e nel lavoro. Beuys non insegna un metodo e neppure spiega (perché “Il pensiero parla senza parole”[2]), caso mai Beuys è un behaviorist, un filosofo che agisce, stimola, cerca, raccoglie e ridistribuisce.

Sovrano su tutto e su tutti è comunque il tempo: “E’ attraverso il tempo che l’individuo si interroga sulla natura e sulla specificità del proprio destino e delle proprie responsabilità” e ancora: “Ogni possibile futuro sarà il risultato del lavoro di noi esseri umani… siamo noi che dobbiamo essere creatori del futuro”[3].

E’ il tempo che vedrà franare quelle vasche, che vedrà crescere gli arbusti della Piantagione Paradise (anche questa in terra d’Abruzzo) o i semi alle Seychelles (uno dei coco de mer che Beuys aveva piantato nel dicembre del 1980 è nato qualche giorno dopo la sua morte). E’ il tempo che insegna la saggezza e dà un senso alla vita. L’arte però li contiene tutti: “L’arte è il completamento della natura. L’arte è la natura complementare”[4].

Beuys ha amato l’Italia perché in Italia ha trovato il terreno fertile in cui mettere a dimora i semi di un progetto che non ha confini e che appartiene all’umanità. Ma basterà il tempo per capire se l’Italia saprà amare Beuys?

Per dovere di cronaca è giusto dire che ben cinque musei italiani hanno rifiutato questa mostra e la relativa donazione. Per fortuna l’arte di Beuys è un patrimonio che non ha bisogno di musei per continuare a vivere.

Lorella Giudici

D’ARS year 51/nr 206/summer 2011

[1] L. De Domizio Durini, Beuys Voice, Electa, Milano 2011, p. 250.

[2] J. Beuys, in Beuys voice, op cit, rispettivamente p. 37.

[3] J. Beuys, in Beuys voice, op cit, rispettivamente p. 958 e p. 461.

[4] J. Beuys, in Beuys voice, op cit, rispettivamente p. 483.

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