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Il sogno di Joan Jonas al Padiglione USA sfida la realtà

Dietro l’austerità neoclassica della facciata, nel padiglione degli Stati Uniti, il riverbero dei paesaggi incontaminati e delle ambientazioni dai colori accesi delle performance di Joan Jonas, quasi acceca il visitatore. I video, proiettati su grandi schermi, ambientati nella penombra delle 5 sale e posizionati a distanza ravvicinata, producono un’attrazione sincronica. Lo spettatore è dislocato mentalmente in un immaginario prearcaico, in luoghi altri: in un mondo fantastico, abitato da animali e ragazzini che si confrontano con una natura incontaminata.

Il lavoro di Jonas ha la capacità di farci entrare in mondi incorrotti, fatti di magia, leggenda e realtà. Le sue favole visive occupano il Padiglione degli Stati Uniti alla 56° Biennale di Venezia con una nuova video installazione. They Come to Us without a Word, curata da Paul Ha, Direttore della sezione List Visual Arts Center del MIT e da Ute Meta Bauer, Direttrice del Center for Contemporary Art della Nanyang Technological University di  Singapore, è una evoluzione dell’interminabile progetto Reanimation presentato per la prima volta come performance al MIT (2010), rimesso in scena con implementi diversi, prima a Documenta (2012) e, poi, all’Hangar Bicocca a Milano (2014, ne abbiamo parlato in questo articolo).

Joan Jonas, They Come to Us without a Word, Production Still, Courtesy of the artist

In parte ispirato alle opere dell’ islandese Halldór Laxness e alla sua descrizione poetica del mondo naturale, il progetto artistico di Jonas dialoga con il futuro in maniera fiduciosa, in questa Biennale che omologa la disfatta dell’homo contemporaneous soccombente alle stratificazioni del proprio agire.

L’arte del Capitale e quella del capitalismo, il consumismo, l’inquinamento, la globalizzazione e il potere tecnocratico dei media;  sono elementi che ricorrono nelle narrative raccontate dai diversi padiglioni, a partire da quello Centrale che ci accoglie con le tende nere di Oscar Murillo e gli schermi televisivi di Fabio Mauri, che a ripetizione prospettano la parola Fine, come una nenia-profezia catastrofica. Jonas si distacca da questa prospettiva infausta.

 

Joan Jonas, They Come to Us without a Word, Production Still, Courtesy the artist

Il suo lavoro al Padiglione Americano si pone come una cesura, che diventa respiro collettivo di speranza: qui l’ingresso sembra essere vietato ai disfattisti, a coloro che non credono nella possibilità di rianimare il pianeta. Nelle sue video-performance non vi sono denunce: il suo è un mondo fantastico, abitato da persone amiche e animali giocosi che danzano al ritmo della natura in una rivisitazione contemporanea di Jean de La Fontaine e Karlheinz Stockhausen.

Bianco è il colore degli abiti e bianchi sono i grandi fogli disegnati da bambini impacciati: il futuro è nelle loro mani e alla loro laboriosità affidiamo il magico mondo delle api. I testi che, come sempre, corredano i lavori di Jonas sono un tributo alle poesie di Emily Dickinson e appaiono come un inno moderno al De rerum natura.

 

Joan Jonas, They Come to Us without a Word, Production Still, Courtesy the artist

They Come to Us without a Word ruota intorno all’idea di fragilità della natura in un contesto di rapido e irrefrenabile cambiamento cosmico.  L’ambientazione delle riprese, esalta gli elementi protagonisti del saggio di Carl Schmitt (La Terra e il Mare, Adelphi, 2002) rende reali terre mitiche e luoghi immaginari e consacra l’atmosfera preindustriale di un mondo che non esiste più.

Scorrono immagini da profondo nord, boschi inabitati, case in pietra abbandonate, glabre colline corrose dal vento, fiordi disabitati, cavalli selvaggi al pascolo, tenere foche e cavallucci marini. Jonas riesce a imbrigliare la maestosità della natura in una narrativa fluida, che diventa un gesto apotropaico di conquista dei dettagli in maniera nostalgica e accorata. La sciamana Jonas compie un incantesimo: quello di vivificare l’immaginario del visitatore, con una costruzione metaforica confidente, che occupa la dimensione dell’inconscio, induce a riflettere sulla beltà terrena e concede un alito di speranza.

Cristina Zappa

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