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Is it really (reality)?

Era il 2008 quando Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone conquistavano critica e spettatori, con tanto di premi, riconoscimenti e gratifica ai botteghini. Questi successi, che vanno rapportati all’odierna dimensione del cinema italiano e alla limitata visibilità di certi generi nelle nostre sale, hanno portato alla coproduzione italo-franco-irlandese diretta da Sorrentino, il buon This must be the place, e adesso, a distanza di un anno, all’uscita di un’altra coproduzione, questa volta solo italo-francese, Reality di Garrone.

Matteo Garrone, Reality © Archimede-Fandango, Le Pacte-Garance Capital
Matteo Garrone, Reality
© Archimede-Fandango, Le Pacte-Garance Capital

Dopo la trasposizione cinematografica del romanzo di Roberto Saviano, Matteo Garrone voleva cambiare registro; con Reality, girando una sorta di commedia, il regista intreccia la rappresentazione del paesaggio culturale napoletano – profilato in alcuni tipi antropologici, angoli cittadini, tempi quotidiani e accenni di rituali – con quella della sfera psicologica di Luciano, protagonista del film, catturato in una giostra che si muove nei territori del paese in cui vive e tra gli spazi dei suoi desideri e delle sue percezioni: l’opera si sviluppa su piani in reciproca contaminazione, il livello che lo stesso Garrone definisce geografico e quello delle manifestazioni del mondo interiore di Luciano.

Matteo Garrone, RealityUna scena dal film
Matteo Garrone, Reality
Una scena dal film

L’elemento partenopeo, coi suoi contrasti ed eccessi, ben si presta a un ritratto filmico dai lineamenti nitidi, le cui espressioni, se viste dalla giusta distanza, potrebbero trascenderne i confini, estendendosi a Roma, Milano, all’Italia intera o, meglio ancora, al presente dell’Occidente; difatti il regista, ai residui delle identità locali, miseramente concentrati nelle fisionomie degli attori e nelle parlate campane, applica delle maglie di interessi standardizzati, le quali conducono i personaggi in scena – relativamente diversi, in quanto la vista di Garrone si posa quasi esclusivamente su figure culturalmente vulnerabili – a frequentare non-luoghi edificati pressappoco su tutto il pianeta: ville che organizzano matrimoni, centri commerciali, parchi acquatici, programmi televisivi quali i reality show. I membri della famiglia estesa di Luciano si distribuiscono attorno alle stesse attività e, indifferentemente dalle età, si perdono in discorsi incentrati su argomenti simili. Significativa è la scena, preparata come una danza generazionale, in cui, sbirciando da una stanza all’altra dell’appartamento, vengono inquadrate nonna, madre e figlia mentre lasciano scivolare gli esagerati abiti della festa, con identica cura, scandendo ritmicamente i gesti, come fosse la spoliazione di un’unica donna, infondendo la comune rassegnazione a dover rindossare il loro aspetto quotidiano. La tematica dell’omologazione culturale e transgenerazionale fa da sfondo all’intera vicenda e, pur non diventandone mai il perno, si concretizza elegantemente in alcune delle migliori trovate registiche dell’opera; dall’altro, un secondo argomento accompagna costantemente Reality, quasi in modo didascalico, la dualità essere-apparire, la quale però, rispetto alle delicate descrizioni delle pratiche omologanti, viene liquidata banalmente in una prospettiva morale, senza essere problematizzata arriva come la compilazione di una tabella con le voci bene/male o giusto/sbagliato. L’ambiente e la mascherata di volti caratteristici, tra cui spiccano quello del barista interpretato da Ciro Petrone – uno dei due ragazzi di Gomorra – e la cortina antropomorfa di Aniello Arena – attore formatosi nella Casa di Reclusione di Volterra e che qui recita la parte di Luciano – sono raccolti da uno sguardo non documentaristico; l’atmosfera è quella del teatro napoletano, tra i luccichii del Paese dei Balocchi e gli acuti di una grande farsa.

Matteo Garrone, Reality© Archimede-Fandango, Le Pacte-Garance Capital
Matteo Garrone, Reality
© Archimede-Fandango, Le Pacte-Garance Capital

Luciano – il secondo livello a cui si accennava in precedenza – lavora in piazza come pescivendolo e, per arrotondare, architetta piccole truffe con la complicità della moglie e di un amico fidato; le sue giornate sono ravvivate dalla spettacolarità e dagli imprevisti che intervallano il tornaconto della famiglia e la vita del quartiere. Spronato dai parenti e dai conoscenti, un pomeriggio si sottopone a un provino per partecipare alla nuova edizione del Grande Fratello: Luciano passa la prima selezione e, sull’entusiasmo dei concittadini palpitanti all’idea di vedere un proprio capobranco catapultato nel mondo della televisione, si reca alla successiva; da questo momento inizia una lunga attesa, l’interminabile illusione di poter, prima o poi, oltrepassare la soglia dello schermo. Le inquadrature si adeguano allo stato d’animo del protagonista mettendo in dialogo il primo piano del suo volto con una girandola di figure fuori fuoco, le scene si modulano in lunghi movimenti di camera, il punto di vista coincide sempre più con quello di svariati occhi elettronici, da quello del circuito chiuso di un negozio a quello di un satellite, dalla macchina fotografica di un turista alla vista tentacolare del reality show. Le scelte registiche rendono in modo raffinato la mutata percezione di Luciano, alienato da tutto e da tutti, imprigionato nel sogno allucinogeno di poter sfondare, presto o tardi, la porta del Grande Fratello – e quella che era la sua quotidianità viene progressivamente smantellata dall’ossessione di essere interrottamente osservato, testato in vista dell’ingresso nel programma. Se la messa in scena è eccellente, la tematizzazione dei contenuti risulta meno interessante, nello specifico l’analisi dell’esercizio di potere da parte di un programma televisivo ai danni di una persona: il sogno di Luciano assume i connotati di un’ossessione, la quale finisce per caricaturizzarlo, per farne un folle, un uomo diverso sbalzato dalla comunità; Garrone medicalizza la dipendenza di Luciano, come se gli effetti di certi poteri fossero identificabili clinicamente. È davvero così? Esasperando le conseguenze di questi poteri, il regista manca la peculiarità della loro azione, la quale, forse, s’insinua più dolcemente, senza strilli e gesti estremi, allargandosi a macchia e producendo semplicemente normalità, non scemi del villaggio.

Giordano Bernacchini

D’ARS year 52/nr 212/winter 2012

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