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Le Magasin des suicides. Soffocare negli abiti culturali

Un uomo scarno, con faccia stropicciata come la pagina di un quotidiano del giorno prima e occhiaie d’inchiostro sbavato, sta per lasciarsi cadere dal bordo del marciapiede proprio al passare di una vettura, quando viene afferrato per la collottola da un uomo piccoletto, col muso tra il carlino e lo strigiforme, il quale gli consiglia una soluzione più saggia, perché il suicidio è proibito in luoghi pubblici.

Patrice Leconte, Le Magasin des suicides © Videa-CDE.
Patrice Leconte, Le Magasin des suicides © Videa-CDE.

Andando con ordine, in Italia, e solo in Italia, Le Magasin des suicides di Patrice Leconte era stato inizialmente bollato – dalla Commissione di Revisione Cinematografica – con un divieto per i minori di diciotto anni. Tale decisione portò la casa di distribuzione a presentare ricorso e ritirare il film dalle sale; alla fine la polemica ha sì ritardato di una settimana l’uscita del film ma, in compenso, ha azzerato le restrizioni di pubblico.

Abbondantemente superati i sessant’anni, Patrice Leconte, che da Tandem (1987) in poi aveva svolto anche il ruolo di operatore in tutti i suoi lungometraggi (egli, infatti, sostiene che il controllo video falsi completamente il punto di vista del regista), si è avventurato nella direzione del suo primo film d’animazione, un po’ perché riteneva che fosse l’unica soluzione per adattare l’omonimo romanzo di Jean Teulé, un po’ per ritornare al proprio passato di disegnatore e amante di fumetti. Un diverso processo creativo, che lo ha portato a condividere le operazioni di regia con gli art director e, per velocizzare i lavori, ad affidarsi a tecnici di computer-generated imagery.

Il cineasta parigino ha costruito una città lugubre e sinistra, dove edifici minacciosamente alti parano ininterrottamente la luce del sole. Un luogo avvolto da un mantello di depressione, abitato da uomini e donne in attesa solamente dell’occasione per farla finita. Già, perché in questo 13° arrondissement a tinte gotiche il suicidio, desiderato e tollerato, è regolato: se lo si attua in strada, nel giro di pochi secondi, le sirene della polizia raggiungono il corpo inerte e lo infiocchettano con una sanzione pecuniaria. Una specie di Gotham City cartonata, popolata da un’umanità giunta all’ultimo stadio di decadenza, le cui ultime pulsioni di vita appartengono a grigie – cromaticamente, s’intende – alterità in posizioni marginali, se non esterne: i ratti che brulicano sottoterra – Leconte parla di loro come di un coro greco che commenta l’azione – e i guardinghi piccioni che cercano di restare in cielo più che possono così da non scottarsi con la cappa di sotto. Le sequenze d’indagine del paesaggio, in effetti, hanno la prospettiva mobile e impazzita di un occhio in volo.

In questa tetro alveare resiste e prospera un negozio colorato, una bomboniera luccicante apparentemente carnevalesca – ecco la soluzione più saggia anticipata a inizio articolo. È La bottega dei suicidi (titolo italiano del film) gestita dalla famiglia Tuvache:  il signor Mishima, la moglie Lucrèce e i due figli adolescenti, la rotondetta Marilyn e l’insetto stecco umanizzato Vincent –  i nomi rimandano allo scrittore giapponese Yukio Mishima, morto nel 1970 facendo harakiri in diretta tv, e ad altri personaggi dal destino simile, la leggendaria Lucrezia di Roma, Marilyn Monroe e Van Gogh. I Tuvache accontentano i loro clienti offrendo un vasto assortimento di rimedi per trapassare: dalle boccette di profumi velenosi per le signore eleganti alla virile katana per il culturista di passaggio, dalle scatole di cioccolatini con la scritta death for two per gli amanti indivisibili al sobrio cappio per individui solitari, fino al kit gratuito costituito da sacchetto di plastica + pezzo di nastro adesivo per chi deve accontentarsi di una morte povera. Offerte personalizzate, anche in base al portafoglio.

Vicino all’universo visivo del connazionale Sylvain Chomet, sfruttando le libertà espressive offerte dall’animazione bidimensionale – anche in forma di teatrini musicali della sfera onirica o psicologica dei personaggi – e venando di humour nero qualsiasi dinamica, Patrice Leconte caricaturizza un mondo privo di orizzonti, fatto da persone senza speranze e desideri. Una civiltà stanca, ferma e impotente, i cui ultimi beni su cui capitalizzare sono le morti dei suoi membri. Da un lato arricchimento economico per l’ultima stirpe di negozianti, dall’altro la gioia di vivere estrosamente la propria fine; e allora imperversano gli slogan: se la tua vita è un fallimento, fai della tua morte un successo!

Patrice Leconte, Le Magasin des suicides © Videa-CDE.
Patrice Leconte, Le Magasin des suicides © Videa-CDE.

Tutto procede cinicamente, clienti che vanno e che vengono; finché un giorno la signora Tuvache mette al mondo il suo terzogenito, Alan, un enorme sorriso a fetta d’anguria montato su un corpicino esile. I tentativi dei genitori per correggerne lo spicchio di felicità risultano inutili. Il bambino cresce e, maturando, aumenta la sua innata gioia di vivere, la quale, però, mal si sposa con l’atmosfera familiare e con l’immagine della bottega. Alan è un inizio di cambiamento, un nuovo vento che soffia contro la casa in cui è stato generato. E, col procedere della narrazione, il suo soffiare diviene sempre più un bombardare. La prima mossa consiste nel regalo di compleanno alla sorella Marilyn, un foulard rosa, con cui la ragazza, nascosta in cameretta, improvvisa balletti mediorientali e, facendoselo scorrere addosso, scopre spontaneamente il piacere del corpo, dell’essere sbirciata, da Alan e dai suoi amichetti, fino a scoperchiare i propri desideri affettivi, erotici. Day of Revolution / the revolution of the sexy lamb, scriveva Allen Ginsberg. Viene in mente l’insinuarsi della Venustas narrata dai poeti romani, quella forza graziosa che trascina dietro di sé, incatenati al loro desiderio, tutti gli esseri viventi.

Il secondo passo di Alan è un intervento progettato con la complicità di un carrozziere: armare un automobile di amplificatori e casse acustiche, parcheggiarla davanti al negozio di famiglia e aspettare di vederne gli effetti. La macchina è un grande cuore cibernetico, che sprigiona musica in tutto il quartiere, le vibrazioni crepano le pareti degli edifici, compresa la bottega di famiglia, diffondendo un ritmo coercitivo, che scuote fisicamente gli abitanti, percuotendoli fin nei loro animi. Musica come battiti di vita, ritrovata armonia, rifiuto di qualsivoglia significato sedimentato. Infine, oltre all’eros e alla musica, il terzo strumento di ribellione è la risata isterica che Alan suscita nel padre, buttandosi dal cornicione di un grattacielo per poi riapparire volteggiando nel vuoto, grazie a un materasso molleggiato posto ai piedi del palazzo. Una risata che travolge, seppellisce; e con Mishima, forse, stanno ridendo anche Nietzsche, Bakunin, Foucault…

Al di là di queste figure suggestive, con Le Magasin des suicides, Leconte sembra denunciare lo stato di apnea della zoé, della nuda vita, che mai come oggi sta soffocando nei propri abiti culturali.

Giordano Bernacchini

D’ARS year 53/nr 213/spring 2013

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