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Riso amaro. La compagnia Astorritintinelli fra poetica dell’attore e immaginario

Sono molti i modi con cui il teatro manifesta la sua qualità riflessiva cioè la capacità di dare voce allo spirito del tempo, a un certo modo di essere della società e dei suoi individui. Il che non vuol dire rappresentare la società per quello che è (quello semmai è stato un compito del teatro borghese), quanto piuttosto riflettere un sentire, farsi carico di un climax ed esprimerlo con la strumentazione poetica e metaforica dell’arte. Su questa base si può comprendere come il rapporto con la realtà sociale – e per quanto riguarda gli scenari politico culturali dell’Italia a partire dagli anni ’90 – si traduca nel nostro teatro in una tensione di tipo politico che molti artisti praticano a partire dal rifiuto della rappresentazione. Non è un caso quindi che il grottesco, il paradosso, l’innaturale e il comico siano i linguaggi più adatti per mettere a tema, senza doverla esplicitare per forza, la “crisi della società” e le sue implicazioni per le persone (artisti e teatranti compresi).

Tutto il mio folle amore © Emiliano Boga

Ed è proprio nell’enfasi grottesca di un “teatro incivile”, secondo la definizione di Oliviero Ponte di Pino, che possiamo rintracciare l’affascinante caso della Compagnia Astorritintinelli fondata nel 2002 da Alberto Astorri e Paola Tintinelli e considerata dalla critica militante la “coppia cult dell’underground milanese” vincitrice del premio In-Box 2011. (…)

Laura Gemini
D’ARS year 55/n. 220/spring 2015 (incipit dell’articolo)

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