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SK-interfaces. Exploding borders in art, technology and society

Sk-interfaces, la mostra che il curatore Jens Hauser ha definito al crocevia tra arte, scienza, filosofia e cultura sociale, si è conclusa presso il Casino Luxembourg (Lussemburgo, forum d’art contemporain,) il 10 gennaio scorso, dopo quattro mesi di apertura al pubblico e grande successo di visitatori. L’evento prosegue un percorso audace e intelligente che il curatore tedesco ha intrapreso già dal 2003 con la mostra Art biotech a Nantes e nel 2008 con Sk-interfaces al FACT di Liverpool. Su queste pagine abbiamo dedicato più volte attenzione ad Hauser ed al suo assetto teorico: personalmente nutro grande stima per questo curatore che ci ha accompagnati (la sottoscritta e Pier Luigi Capucci) nella visita alla mostra, argomentando e descrivendo ogni singola opera con brillante cognizione di causa. Un’esposizione di fortissimo impatto anche per chi già conosceva parte dei lavori esposti e da tempo studia queste trasversali e sincretiche forme d’ arte.

Eduard Kac, Natural History of Enigma
Eduard Kac, Natural History of Enigma

Il titolo Sk-interfaces gioca sulla parola skin, pelle e sulla parola interface, interfaccia. Una sorta di ibridazione tra le due fa apparire la pelle come interfaccia. Il punto di partenza della riflessione sta idealmente nella profezia di McLuhan, secondo la quale nell’era dell’elettronica porteremo tutta l’umanità addosso come la nostra pelle, e dunque nel rischio denunciato che questa “connettività” globale possa portare a un impoverimento, un’autoamputazione dei sensi, a un totale cambiamento delle nostre coscienze percettive che si allontanano dall’essere corporeo fino ad estendersi nella rete.

La pelle, dunque, soggetto chiave per la sua valenza reale e simbolica allo stesso tempo, è quel sottile confine che si sposta continuamente in quanto luogo dell’incontro, soglia aperta e porosa e non barriera invincibile. La pelle è la nostra cultura, il nostro modo, riconoscimento e segno delimitante dall’altro-da-sé. Contemporaneamente membrana connettiva e sensibile, momento di percezione, difesa e specchio. Emblematico dunque che sempre più artisti in questo momento- cerniera ricorrano alla pelle (ancor più che negli anni ’60 con la body art, quando il corpo non era vissuto tanto come interfaccia quanto come supporto), sia per le sue qualità materiali e funzionali, sia per il ruolo metaforico.

La mostra pone l’accento sul “-” di sk-interfaces in quanto spazio esistente fra stati ontologici fluttuanti, ovvero fra dimensioni sempre meno definite, più rarefatte e interagenti, in un’epoca storica in cui questo stato liminale rappresenta un rituale di passaggio per le nostre coscienze. Le continue evoluzioni delle scienze della vita mescolano continuamente le carte abbattendo sempre  più confini tra umano, vegetale, animale, naturale e artificiale, vivente e non vivente, organico e inorganico. All’utilitarismo dominante –scrive Hauser- gli artisti oppongono così degli utilizzi deviati della pelle per formulare proposte estetiche, poetiche e provocatrici che ricavano dalle nature artificiali tanto un impulso olistico quanto un’illusione ecologica nella quale l’essere umano assume le proprie responsabilità piuttosto che rifugiarsi nel suo statuto cosiddetto a parte.[1]

Orlan, Le manteau d'Arlequin
Orlan, Le manteau d’Arlequin

Venti gli artisti in mostra, impossibile esaminarli tutti, anche se ne varrebbe la pena: Art Orienté objet, Maurice Benayoun, Zane Berzina, Critical Art Ensemble, Wim Delvoye, Olivier Goulet, Eduardo Kac, Antal Lakner, Yann Marussich, Kira O’Reilly, Zbigniev Oksiuta, Orlan, Philippe Ranhm, Julia Reodica, Stelarc, Jun Takita, The office of experiment, The Tissue Culture and Art Project, Sissel Tolaas Paul Vanousse. Alcuni hanno affrontato la tematica con opere simbolico-evocative, altri sono entrati completamente dentro la materia vivente, la manipolazione genomica, la cultura in vitro e la sperimentazione vera e propria. Per questo motivo la realizzazione della mostra ha implicato il coinvolgimento di scienziati che hanno collaborato con gli artisti, sia nella fase di incubazione delle opere, sia in quella dell’installazione al museo.

Possiamo solo immaginare le implicazioni etiche e le difficoltà burocratiche che sono state affrontate, a partire da quelle associate alla straordinaria opera di Eduardo Kac, Natural History of enigma, una riflessione sulla continuità della vita tra speci differenti: un fiore geneticamente modificato è stato prodotto combinando il dna umano e vegetale. Un’ibridazione, dunque, tra l’artista e una petunia, battezzata Edunia. In questa insolita sequenza genomica il dna dell’artista produce una proteina umana che scorre nelle venature rosse del fiore. Ma questa sequenza sarebbe la responsabile nel sangue umano del sistema immunitario e quindi del riconoscimento dei corpi estranei: ciò che normalmente serve a proteggere, in questo fiore si trasforma in responsabile dell’integrazione. Si sottolinea l’eredità comune tra varie specie e si rende vivo-vivente quell’immaginario associativo umano-pianta che nel passato era stato già di Arcimboldo.

La presenza di Art Orienté Objet, un gruppo molto engagé nel combattere le concezioni antropocentriche vigenti,  conferma e rafforza il senso del percorso espositivo: suggestive e molto poetiche le Trans-species aura Photography, dove gli artisti, avvalendosi della tecnica pseudo-scientifica della fotografia dell’aura (sviluppata nel 1930  da Seymon Kirlian per visualizzare i campi elettrici) tentano una serie di ritratti umani e felini visualizzando analogie cromatiche nell’aura, secondo gli stati d’animo di entrambi. Seconda opera in mostra del gruppo Roadkill coat: una pelliccia confezionata con pelli di animali vittime di incidenti, raccolti sul ciglio delle strade. Stampato sulla seta della fodera interna, un collage di immagini che li ritraggono, abbandonati. Un’opera che fa riflettere.  In mostra anche la celeberrima installazione Artists’ skin culture, cellule di pelle degli artisti coltivate in vitro e innestate su cellule di pelle di maiale. Su questi insoliti supporti vengono tatuati disegni raffiguranti animali in via di estinzione. Si riflette sullo xenotrapianto e sull’abolizione delle differenze transpecifiche. In mostra le famose sculture semi-viventi di The Tissue culture and Art Project, Victimless Leather e Semi-living worry dolls, il lavoro di Stelarc Ear on Arm (il celebre orecchio impiantato sul braccio), e Stretched Skin, un ritratto fotografico dell’artista manipolato fino a divenire una sorta di planimetria geografica. Interessante la complessa installazione di Orlan, le Manteau d’Arlequin, dove il vestito di Arlecchino è metafora di multiculturalismo, collage ideale di coltivazioni di pelli di differenti speci ed etnie. Vorrei ricordare che questa, come altre opere in mostra sono frutto di soggiorni degli artisti presso SymbioticA  (Perth, Australia),  un laboratorio di ricerca fondato da Oron Catts e Ionat Zurr nel corso degli anni ’90, dedicato all’esplorazione artistica della conoscenza scientifica in generale e biotecnologica. In particolare, SymbioticA è il primo laboratorio di ricerca del relativo genere che permette agli artisti di conoscere e sperimentare le pratiche di biologia e scienza in un dipartimento appropriatamente attrezzato.[2]

Mi piacerebbe vedere in Italia una mostra di tale portata e forza dirompente, ma qui si censurano operazioni ben più innocue. E quindi, accontentiamoci dell’ennesima, rassicurante e poco invadente celebrazione del passato.

 Cristina Trivellin

D’ARS year 50/nr 201/spring 2010

 


[1] Jens Hauser, testo di presentazione alla mostra, traduzione dal francese di ct

[2] http://www.symbiotica.uwa.edu.au/

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