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Un precipizio di Bit. Il folklore malato di Maguy Marin

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Scena da Bit di Maguy Marin, Compagnie Maguy Marin. Ph. Didier Grappe

Che cosa ci vuole dire questa volta Maguy Marin? Che la danza è in fondo in fondo un gioco, ma pericoloso? Che nella filigrana di una festa solo apparente c’è un rito che si ripete come un loop asfissiante? Che la danza non è metafora della seduzione ma crudezza che esplicita il rituale dell’accoppiamento in una sessualità spinta e dichiarata? Che la danza forse è solo ritmo che ci salva come un volano che ci proietta oltre i muri della realtà? Bit, lo spettacolo visto a Rovereto nel cartellone del festival di danza contemporanea Oriente Occidente (ma già presentato alla Biennale de la Danse di Lion lo scorso anno), ci lascia non solo i dubbi ma la sgradevolezza di accettare come vero che la danza sia appunto incapace di redimere la solitudine degli esseri umani e soprattutto la loro congenita bestialità.

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Scena da Bit di Maguy Marin. Compagnie Maguy Marin. Ph. Didier Grappe

Bit è un lavoro resistente, come ama dire Maguy Marin (coreografa francese di danza contemporanea tra più talentuosi del nostro tempo), che resiste alle tentazioni dell’estetica aggiungiamo noi. Perché i sei danzatori volutamente sporcano la matrice folkloristica delle loro coreografie (si riconosce il sirtaki ad esempio) mantenendo il bit, il ritmo dentro una ossessione ripetitiva metafora della società contemporanea. Una cadenza tirannica marchiata dalle musiche, costruite per l’occasione dal musicista tolosiano Charlie Aubry, che incalzano i passi costringendoli a muoversi tra entrate e uscite, salite e discese dai sei pannelli disposti a raggiera sul palco. Sei pedane inclinate su cui salire, scendere, arrampicarsi o scivolare, sempre e comunque in diagonale, la linea dello squilibrio del precipizio dell’instabilità.

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Scena da Bit di Maguy Marin. Compagnie Maguy Marin. Ph. Didier Grappe

Sei pannelli come muri sartriani o monoliti di Carl Andre in cui la percezione ogni volta calibra la forza di gravità che ora attrae, ora alleggerisce i sei corpi che di girotondo in girotondo precipitano in un vortice di animalità. Si parte dall’endecasillabo dantesco recitato da una voce off, respiro paradisiaco accompagnato dalla festa, ma è subito voragine nell’inferno di coppie che diventano accoppiamenti e uomini che strisciano come vermi. Marin si toglie qualche personale sassolino appesantendo il lavoro con immagini dell’anticlericalismo evidentemente didattico (frati che stuprano e si beano di ori e denari). Ma sono gli oggetti nell’insieme ad essere troppo figurativi e ad aggravare il lavoro di drappi rossi, monete d’oro, maschere d’inspiegabile significato.

Tutto serve per aprire finestre a citazioni manieriste (Pontormo), filmiche (Tim Burton?) o video-artistiche (Bill Viola). Preferiamo all’apparecchiatura degli orpelli, la lentezza inesorabile di questo folklore che risucchia, dentro passi cadenzati dal “popolare”, la volontà umana di redimersi, di sopravvivere al suo essere animale. La danza non salva, né che si danzi sulle macerie, né in fondo a un imbuto di pannelli scoscesi. Uscire di scena non basta perché inesorabilmente si rientra con lo stesso ritmo, lo stesso bit. I vestiti “della festa” sono sporchi e sudati. Il refrein del divertimento, del sesso, della convivialità è un giocattolo, ormai del tutto rotto.

Simone Azzoni

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